“La storia culturale del continente si può dividere in tre grandi fasi: l’Africa prima della conquista dei bianchi, quella sotto la dominazione coloniale e quella di oggi, che si sforza di trovare la vera immagine di se stessa”. Nel 1971 un giovane James Ngugi rifletteva sulle prospettive dei paesi africani di recente indipendenza su The Unesco Courier, il mensile pubblicato dall’organizzazione culturale delle Nazioni Unite (l’articolo è stato tradotto nel volume Viva l’indipendenza della collana Internazionale storia).

In quegli stessi anni, in linea con l’imperativo di trovare la vera immagine di se stessi, l’autore nato in Kenya nel 1938 decise di non farsi più chiamare con il nome preso dai colonizzatori britannici, ma di usare il suo nome kikuyu, Ngũgĩ wa Thiong’o. Poeta, drammaturgo e romanziere, è passato alla storia come uno dei più importanti autori africani contemporanei, pubblicato nella famosa collana African writers series della casa editrice Heinemann, insieme a nomi come Chinua Achebe, Ama Ata Aidoo, Nadine Gordimer e Buchi Emecheta. Fu uno dei pochi a raggiungere il successo internazionale usando una lingua africana, il kikuyu.

Nel 1977 fu incarcerato dal governo dell’allora presidente Jomo Kenyatta, il padre dell’indipendenza keniana, per aver scritto, insieme a Ngũgĩ wa Mirii, l’opera teatrale Ngaahika ndeenda (Mi sposerò quando voglio), che criticava il sistema capitalistico adottato dalle nuove autorità. Il successore di Kenyatta, Daniel Arap Moi, lo costrinse all’esilio, prima nel Regno Unito, e poi negli Stati Uniti, dove ha insegnato a lungo all’università. Sempre in odore di premio Nobel per la letteratura, è morto il 28 maggio in un ospedale di Buford, in Georgia, senza ricevere quel riconoscimento letterario a cui, secondo molti, avrebbe avuto diritto.

Le opere principali

Tra i suoi scritti più famosi ci sono il romanzo d’esordio Weep not, child del 1964 (uscito in Italia per Jaca Book con il titolo Se ne andranno le nuvole devastatrici), in cui parla della rivolta anticoloniale mau mau, un Chicco di grano del 1967, in cui riflette sulle divisioni tra i keniani dopo l’indipendenza, e Petali di sangue del 1977, che comincia come un romanzo poliziesco. Seguì anche il famoso saggio del 1986 Decolonizzare la mente (Jaca Book 2015).

Caitaani mutharaba-Ini (Diavolo in croce), del 1980, è ricordato invece come il primo romanzo che Ngũgĩ scrisse nella lingua kikuyu durante la sua reclusione in carcere, usando fogli di carta igienica. “Oggi ci rendiamo conto sempre di più che lo studio delle lingue africane è importante per creare un’immagine significativa di noi stessi. Incentivandolo, inevitabilmente sempre più africani vorranno scrivere nelle loro lingue, aprendo nuove strade alla nostra immaginazione creativa”, osservava nell’articolo su The Unesco Courier, sottolineando l’importanza di usare la propria lingua madre.

Questa battaglia l’ha portata avanti fino a tempi molto recenti, come quando, insieme all’intellettuale senegalese Boubacar Boris Diop, aveva firmato una lettera al neoeletto presidente senegalese Bassirou Diomaye Faye invitandolo ad adottare le lingue locali come “pietra angolare” del nuovo Senegal.

Nei suoi ultimi anni Ngũgĩ ha vissuto in California. Due anni fa il quotidiano britannico The Guardian aveva pubblicato un lungo articolo di un giornalista keniano, Carey Baraka, che era andato a trovarlo a casa. Nell’articolo si raccontavano anche dettagli della vita intima e quotidiana di un uomo anziano malato di cancro. Nella famiglia dell’autore – che aveva dieci figli, di cui quattro scrittori pubblicati – c’è chi non ha apprezzato l’intrusione nella sua vita privata.

In Kenya la storia è stata ripresa anche da giornali e tabloid, che in alcuni casi hanno scritto che Ngũgĩ viveva in condizioni miserevoli, abbandonato dai propri figli. Non il destino che si augura a un grande autore. Qualche tempo dopo uno dei suoi figli, Mukoma wa Ngũgĩ, a sua volta poeta e scrittore, l’ha accusato sui social media di essere stato un marito violento con la prima moglie Nyambura, aprendo un dibattito su modelli tossici di patriarcato e zone d’ombra dei grandi della letteratura.

Al netto delle critiche, la sua morte ha scosso profondamente la comunità letteraria africana. “Sono quello che sono grazie a lui sotto molti aspetti”, ha riconosciuto il figlio Mukoma, dopo la morte del padre, “come figlio, studioso e scrittore. Gli voglio bene, non so cosa mi riserverà il domani senza di lui”.

“Finisce un’era di scrittori che hanno reso il novecento un periodo di cambiamento culturale e di evoluzione della letteratura africana”, ha scritto Ainehi Eidoro su Brittle Paper, un sito nigeriano di letteratura. “Insieme ad Achebe, Soyinka, Aidoo e molti altri, Ngũgĩ ha contribuito a gettare le basi della letteratura africana come la conosciamo oggi. Ha lottato per portare le voci africane sulla scena mondiale e ha fornito ad altri scrittori il linguaggio per raccontare vicende radicate nelle loro storie e culture”.

“I suoi non erano solo romanzi”, ha commentato il giornalista ugandese Charles Onyango-Obbo in un articolo in cui elenca le opere principali di Ngũgĩ. Con i suoi libri “ha istigato rivolte: ogni titolo era una molotov lanciata contro il cannone coloniale, il burocrate neocoloniale e i traditori dell’indipendenza. Il vecchio leone se n’è andato, ma il suo ruggito risuona ancora”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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