Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2017 nel numero 1236 di Internazionale.
Roman Polanski, Woody Allen, Bill Cosby, William Burroughs, Richard Wagner, Sid Vicious, V.S. Naipaul, John Galliano, Norman Mailer, Ezra Pound, Caravaggio, Floyd Mayweather, ma se cominciamo a elencare gli atleti non finiamo più. E le donne? Fare una lista è un’impresa molto più difficile e incerta: Anne Sexton? Joan Crawford? Sylvia Plath? Gli atti di autolesionismo contano? Meglio tornare agli uomini: Pablo Picasso, Max Ernst, Lead Belly, Miles Davis, Phil Spector.
Hanno fatto o detto qualcosa di orribile, e hanno creato qualcosa di eccelso. L’atto orribile interferisce con il capolavoro. Non riusciamo a guardare, ascoltare o leggere il capolavoro senza ricordare l’atto orribile. Travolti dalla consapevolezza della mostruosità dell’artefice, ci allontaniamo, in preda al disgusto. O magari no. Continuiamo a guardare, separando o provando a separare l’artista dall’arte. In ogni caso c’è interferenza. Sono geni mostruosi, e non so come affrontare la cosa.
Da quando Trump è al potere pensiamo tutti ai mostri. Io ho cominciato qualche anno fa. Facevo delle ricerche su Roman Polanski per un libro che stavo scrivendo e sono rimasta impressionata di fronte alla sua mostruosità. Era colossale, come il Grand canyon. Eppure, guardando i suoi film, era la loro bellezza che trovavo colossale, e non veniva intaccata dalla mia conoscenza dei suoi atti scellerati.
Avevo letto molto sul suo stupro della tredicenne Samantha Gailey. Sono certa di non essermi lasciata sfuggire nessun particolare della vicenda. Eppure riuscivo comunque a consumare le sue opere. Appassionatamente. Più avanzavo nelle mie ricerche su Polanski e più mi sentivo attratta dai suoi film. Li guardavo e riguardavo, soprattutto i più importanti: Repulsione, Rose-mary’s baby, Chinatown. Come tutti i capolavori, chiedevano di essere rivisti. Li divoravo.
Erano diventati parte di me, come succede con le cose che amiamo. In teoria non avrei dovuto amare quelle opere o quell’uomo. È oggetto di sdegno, boicottaggi e azioni legali. Per il pubblico l’uomo e la sua creazione sembrano essere la stessa cosa. Ma è così? Non dovremmo cercare di separare l’arte dall’artista, il creatore dal creato? Ci abbandoniamo a un oblio deliberato quando vogliamo ascoltare, che so, il ciclo dell’Anello del Nibelungo (non tutti dimenticano altrettanto facilmente: le opere di Wagner non sono quasi mai andate in scena in Israele) o crediamo che i geni abbiano diritto a una specie di esonero comportamentale? E come cambia la nostra reazione tra una situazione e un’altra?
Per alcune opere d’arte è come se le trasgressioni dell’autore ne avessero reso impossibile il consumo: come si può guardare il Cosby show dopo le accuse di stupro rivolte a Bill Cosby? Certo, tecnicamente nulla c’impedisce di farlo, ma anche in quel caso cosa stiamo guardando? Il programma o lo spettacolo della nostra innocenza perduta? È solo una questione pratica? Sospendiamo il nostro apprezzamento se la persona è viva e potrebbe quindi trarre un guadagno dal fatto che consumiamo le sue opere? Votiamo con i nostri portafogli? E in tal caso, possiamo vedere un film di Roman Polanski in streaming gratis? O a casa di un amico?
Fermi tutti: innanzitutto chi è questo “noi” che spunta sempre negli articoli di critica? È una via di fuga. “Noi” non vale niente, è un modo per sbarazzarsi di qualunque responsabilità personale e al tempo stesso ammantarsi di una facile autorevolezza. È la voce del critico mediocre, quello sinceramente convinto di sapere cosa dovrebbero pensare gli altri. “Noi” è corrotto. “Noi” è una finzione.
La vera domanda è: io posso amare l’arte ma odiare l’artista? E tu? Quando dico “noi”, intendo “io”. Intendo “tu”. So che Polanski è peggio, qualunque cosa questo significhi, e che Cosby è più comune. Ma per me il mostro per eccellenza è Woody Allen. Gli uomini vogliono sapere perché Woody Allen ci fa infuriare. Woody Allen è andato a letto con Soon-Yi Previn, la figlia della sua compagna Mia Farrow. La prima volta che è successo Soon-Yi era un’adolescente e lui il regista più famoso del mondo. Ho vissuto la scopata di Woody Allen con Soon-Yi come un tradimento personale.
Quando ero giovane, mi sentivo come lui. Credevo che mi rappresentasse sullo schermo. Lui era me. È uno dei tratti distintivi del suo genio, la sua capacità di mettersi nei panni del pubblico. L’identificazione era accentuata dall’aria apparentemente inadeguata del suo personaggio: secco come un ragazzino, basso come un ragazzino, confuso da un mondo insensibile e incomprensibile (come Charlie Chaplin prima di lui). Mi sentivo vicina a quel regista adulto più di quanto fosse ragionevole aspettarsi da una bambina. In qualche folle modo, sentivo che mi apparteneva. Lo avevo sempre considerato uno dei nostri. Dopo Soon-Yi è diventato un molestatore. La mia risposta non era logica. Era emotiva.
Un pomeriggio piovoso della primavera del 2017 mi sono lasciata cadere sul divano del salotto e ho commesso un atto trasgressivo. Non quello a cui pensate. Ho noleggiato Io e Annie. È stato facile. È bastato premere il tasto ok sul mio gigantesco telecomando universale, poi ho cominciato a frugare in una confezione di biscotti mentre scorrevano i titoli di testa. Per essere un atto trasgressivo, non era dei più spettacolari. Avevo già visto il film una decina di volte, ma nonostante questo l’ho trovato ancora una volta incantevole.
Io e Annie è pura arguzia, è Fred Astaire che balla in Cappello a cilindro, un palloncino pieno di elio che tira il nastro a cui è attaccato. È una storia d’amore per le persone che non credono nell’amore: Annie e Alvy si avvicinano, si allontanano, si avvicinano, e alla fine si lasciano una volta per tutte. La loro relazione è futile dall’inizio alla fine e al tempo stesso ha pienamente senso. Io e Annie è la migliore commedia del ventesimo secolo, migliore di Susanna!, perché prende atto dell’irreprimibile nichilismo che si annida in ogni commedia. E poi è davvero divertente. Guardare Io e Annie vuol dire sentire, brevemente, che apparteniamo all’umanità.
Durante la visione ci si sente quasi assaliti da questo senso di appartenenza. È un legame che può essere più bello dell’amore. E, se mai ve lo foste chiesto, è questo che chiamiamo grande arte. Non che io passi il tempo a sentirmi legata al resto del genere umano. È un piacere sporadico. Dovrei rinunciare solo perché Woody Allen si è comportato male? Non mi sembra giusto. Quando le ho detto che stavo scrivendo un articolo su Allen, la mia amica Sara mi ha raccontato di aver visto nel suo quartiere una casetta di legno per la raccolta e lo scambio di libri piena di volumi di e su Woody Allen.
Abbiamo riso al pensiero del fan furibondo – quasi certamente una donna – che non sopportando più di avere quei libri tra le scatole li aveva infilati tutti in quella graziosa casetta. Poi Sara si è fatta pensosa: “Non so dove mettere tutto ciò che provo per Woody Allen”, ha detto. Appunto. Ho raccontato a un’altra amica intelligente che mi stavo occupando di Woody Allen. “Ho tantissime cose da dire su Woody Allen!”, ha risposto, impaziente di condividerle. Stavamo sorseggiando del vino sulla sua veranda.
Si è messa comoda, con il viso illuminato dal sole del tardo pomeriggio. “Sono arrabbiatissima con lui! Già mi aveva fatto imbestialire con la storia di Soon-Yi, poi è stata la volta di – come si chiama quel ragazzino? Dylan? – poi sono arrivate le accuse di Dylan, e le orribili dichiarazioni con cui Allen le ha liquidate. E poi odio il modo in cui parla di Soon-Yi, ripetendo sempre quanto lui le abbia arricchito la vita”.
Credo che questo sia ciò che accade a molti di noi quando consideriamo l’opera di geni che sono anche dei mostri. Pensiamo di formulare dei pensieri etici mentre stiamo provando dei sentimenti morali. Mettiamo delle parole intorno a quei sentimenti e li chiamiamo opinioni: “Quello che Woody Allen ha fatto è profondamente sbagliato”. E l’origine dei sentimenti è più elementare di quella del pensiero. Ecco cos’era successo: la vicenda di Woody e Soon-Yi mi aveva turbata.
Non stavo pensando, stavo provando qualcosa. In un certo senso era come un affronto personale. Volete provare delle emozioni complicate? Guardate Manhattan. Come molti (molti cosa? molte donne? madri? ragazze cresciute? molti che provano sentimenti morali?), per anni non sono riuscita a guardare Manhattan. Qualche mese fa, quando ho cominciato a pensare a Woody Allen come a un mostro, ho visto praticamente tutti i suoi film prima di ammettere a me stessa che, prima o poi, avrei dovuto affrontare anche Manhattan. Quel giorno è arrivato.
Mentre prendevo posto sul mio bel divano nel mio comodo salotto, il processo a Bill Cosby era in corso. Era il giugno del 2017. Mio marito, che ha un talento tipicamente nordico per i melodrammi ovattati, mi ha suggerito di passare dal processo Cosby a Manhattan in modo da costruire una specie di metanarrazione della mostruosità. Ma l’austero senso dell’intrattenimento del mio consorte nordeuropeo si è rivelato inutile, perché il processo Cosby non era trasmesso in tv. Però si stava svolgendo.
Quell’estate regnava un’atmosfera di estremo disagio. Un senso generale che qualcosa non andava. Le persone, e con questa parola intendo dire le donne, erano sconvolte e scontente. S’incrociavano per strada, si scambiavano uno sguardo, scuotevano la testa e si allontanavano senza una parola. Le donne ne avevano abbastanza. Le donne avevano organizzato una gigantesca marcia dell’esasperazione. Le donne si esprimevano su Facebook e su Twitter, facevano lunghe, rabbiose passeggiate, si chiedevano perché i loro partner e i loro figli non lavassero più spesso i piatti. Le donne stavano scoprendo l’invidia racchiusa nel paradigma del lavaggio dei piatti. Le donne si stavano radicalizzando, anche se in realtà non avevano tempo per radicalizzarsi.
Arlie Russell Hochschild ha pubblicato The second shift nel 1989, e nel 2017 le donne si stavano rendendo conto che la situazione di merda che descriveva allora era più attuale che mai. Nel giro di un paio di mesi sarebbero cominciate le accuse a Harvey Weinstein, seguite dalla valanga della campagna #Metoo.“In questo momento non sono molto soddisfatta degli uomini”, scrivevo nel mio diario quand’ero adolescente. Nell’estate del 2017 continuavo a non essere molto soddisfatta degli uomini, e come me molte altre donne. Anche molti uomini non erano soddisfatti degli uomini. Perfino i patriarchi erano stufi del patriarcato.
Nonostante quel mucchio di opinioni, sentimenti e rabbia, ero decisa ad avvicinarmi a Manhattan senza pregiudizi, o almeno volevo provarci. In fondo molte persone lo considerano il capolavoro di Woody Allen, ed ero pronta a lasciarmi rapire. Effettivamente durante i titoli di testa sono stata rapita: il bianco e nero, i tagli in asse sincronizzati in modo perfetto, quasi comico, con le note trionfali di Rapsodia in blu. Dopo un attimo la cinepresa inquadra Isaac (il personaggio di Allen) a cena fuori con i suoi amici Yale (che cazzo di nome è, Yale?) ed Emily, la moglie di Yale. Con loro c’è la ragazza con cui esce Allen, la liceale diciassettenne Tracy, interpretata da Mariel Hemingway.
L’aspetto più sbalorditivo della scena è la sua disinvoltura. Mi scopo una liceale, che sarà mai. Certo, Isaac sa che la relazione non può durare, ma le implicazioni morali della faccenda non sembrano turbarlo più di tanto. Allen è affascinato dalle sfumature della morale, tranne quando è alle prese con il tema degli uomini di mezza età che si scopano le adolescenti. Di fronte a questa particolare questione, uno dei migliori osservatori dell’etica contemporanea – uno la cui opera della maturità sfiora livelli flaubertiani – diventa improvvisamente un imbecille.
“Al liceo anche le ragazze brutte sono belle”, mi disse una volta un professore del liceo. Il viso di Tracy, il viso di Mariel, è fatto di superfici piane e aperte che evocano pionieri, sole e campi di grano (in fondo è un viso dell’Idaho). Per Allen Tracy è buona e pura come le donne adulte del film non possono essere. Tracy è saggia, come Allen ha voluto che fosse il personaggio, ma a differenza degli adulti del film è completamente e miracolosamente libera da nevrosi.
Heidegger usa i concetti di Dasein e Vorhandensein. Dasein vuol dire coscienza presente, un’entità consapevole della propria mortalità, ovvero quasi tutti i personaggi di tutti i film di Woody Allen tranne Tracy. Vorhandensein, invece, è un essere che esiste in quanto tale. È e basta, come un oggetto o un animale. O come Tracy. È splendida semplicemente essendo: inerte come un oggetto, Vorhandensein. Come le stelle del cinema di un tempo, è un viso. È lo stesso Isaac a dirlo nella sua famosa tirata sulle ragioni per cui vale la pena di vivere: “Groucho Marx; Joe DiMaggio; i film svedesi; quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne; i granchi da Sam Wo; il viso di Tracy”.
Allen/Isaac può avvicinarsi a quel mondo ideale, un mondo che ha dimenticato la propria conoscenza della morte, scopandosi Tracy. E poiché è Woody Allen – un grande regista – Tracy è autorizzata a dire la sua, non è una sciocca. “M’importa di te. Abbiamo gli stessi interessi”, dice. “A letto è fantastico”. A Isaac non poteva andare meglio: può risucchiare la meravigliosa semplicità incarnata di Tracy ed essere assolto da ogni colpa. Le donne nel film non hanno questo vantaggio.
Le donne adulte in Manhattan sono brusche e fin troppo consapevoli della morte. Sono consapevoli di tutto, porca miseria. Una donna pensante è bloccata, separata dal corpo, dalla bellezza, dalla vita stessa. Per me il momento più significativo del film è quando a un cocktail una signora molto chic fa una battuta in tono acuto e lamentoso: “Be’, è che io finalmente ebbi un orgasmo e il mio medico mi disse che era di tipo sbagliato”. La risposta (molto divertente) di Isaac: “Di tipo sbagliato, sì? Io mai avuti di tipo sbagliato, mai: coi peggiori faccio crollare il lampadario”.
Qualunque donna guardi il film sa che lo stronzo è il dottore, non la donna. Ma Woody/Isaac non la vede così. Se una donna può pensare, non può venire; se può venire, non può pensare. Proprio come Manhattan non esamina mai pienamente né genuinamente la complessa questione del vecchio che si fa una liceale, lo stesso Allen – uomo che sa parlare – diventa stranamente incapace di esprimersi quando parla di Soon-Yi. In un’intervista rilasciata nel 1992 a Walter Isaacson per Time, Allen fece una battuta che diventò emblematica della frivolezza con cui liquida le sue debolezze morali: “Al cuor non si comanda”.
È una di quelle frasi che non ti escono più dalla testa una volta che le hai sentite: l’abbiamo memorizzata tutte subito, volenti o nolenti. Il suo mostruoso disinteresse per tutto ciò che non è la sua persona. La sua orgogliosa irrazionalità. Nell’intervista prosegue: “Non c’è nessuna logica in queste cose. S’incontra qualcuno, ci si innamora e questo è tutto”.
Poiché in quel periodo la situazione era quella che era, ho fatto fatica a finire Manhattan: mi ci sono volute un paio di puntate. Ho raccontato sui social network quanto fosse difficile guardare Manhattan nella fase Trump (speravo ardentemente che fosse una fase). “Manhattan è l’opera di un genio! Dopo questa ti saluto, Claire!”, ha risposto uno scrittore che non conoscevo personalmente, un tizio che non aveva reagito a molte delle mie ben più scandalose dichiarazioni, alcune delle quali riguardavano il mio desiderio di giustiziare e fare a pezzi la metà maschile della specie umana, in puro stile Valerie Solanas.
Ma nel momento in cui ho confessato di provare uno strano sentimento guardando Manhattan (se non sbaglio ho scritto che il film mi faceva venire “una leggera nausea”), questo tizio ha lasciato bruscamente la mia pagina, dichiarando di non voler più avere nulla a che fare con me. Ero venuta meno a quello che secondo lui era il mio compito: riuscire a superare la mia moraleggiante cavillosità – le mie emozioni – e ad apprezzare il genio. Ma chi era il più emotivo tra noi due? Era lui quello che aveva lasciato lo spazio virtuale sbattendo la porta.
Nel corso dei mesi successivi avrei avuto quello stesso scambio con molti uomini, intelligenti e stupidi, giovani e anziani. “Devi giudicare Manhattan sul piano estetico!”, dicevano. A una cena mi sono ritrovata a parlarne con un altro scrittore. Sembrava uno sketch. La scrittrice: “Non convince”. Lo scrittore, tagliente: “Cosa intendi?”. “Be’, è tutto un po’ troppo blasé. Isaac non sembra molto turbato dal fatto che lei sia una liceale”. “Non è assolutamente vero, la cosa lo fa stare malissimo”. “Ci scherza su, ma di certo non ci sta malissimo”. “È che tu pensi alla vicenda Soon-Yi, e lasci che si rifletta sul film. Non ti facevo così”. “Secondo me il film è di per sé inquietante, anche senza pensare a Soon-Yi”.“Supera la cosa. Devi giudicare il film solo sul piano estetico”. “E cos’è che oggettivamente ne farebbe un buon film sul piano estetico?”. Lo scrittore se ne esce con una frase brillante sull’equilibrio e l’eleganza.
A quel punto avrei voluto che la scrittrice gli sferrasse il colpo di grazia, ma non è successo. Mi aveva fatto dubitare di me. Chi tra noi due vede le cose con più chiarezza? La persona che ha la capacità – qualcuno direbbe il privilegio – di rimanere indifferente agli atteggiamenti del regista verso le donne e alle sue storie con delle ragazzine? Che ha saputo guardare l’arte senza cadere nell’errore di seguire la biografia dell’autore? O chi non poteva fare a meno di notare gli impulsi che sembravano animare il progetto? Me lo chiedo davvero.
E questi spettatori così orgogliosamente oggettivi erano davvero oggettivi quanto credevano di essere? Il genio di Woody Allen è generalmente autoaccusatorio, in questo film l’autoaccusa vacilla e in più Woody Allen si scopa un’adolescente, ed è proprio questo il film che tutti chiamano un capolavoro? Cos’è esattamente che questi uomini stanno difendendo? Il film? O qualcos’altro? Secondo me Manhattan, con la sua storia pro-ragazzine e anti-donne, sarebbe stato un film sconvolgente anche senza la vicenda Soon-Yi, ma non possiamo esserne certi, e il punto è proprio questo.
I love you, daddy di Louis C.K. – storia di un padre che fa di tutto perché la figlia adolescente non si metta con un uomo più grande – farà la stessa fine. Sarà impossibile vederlo ignorando le accuse di molestie sessuali rivolte a Louis C.K., ammesso che qualcuno lo veda. Per ora la distribuzione è sospesa e il film non uscirà. Una grande opera d’arte suscita delle sensazioni. Ma quando dico che Manhattan mi fa venire la nausea, un uomo mi dice: “No, quella è la sensazione sbagliata”. Parla con autorevolezza: Manhattan è l’opera di un genio. Ma a chi spetta dirlo?
La figura autorevole dice che l’opera non è influenzata dalla vita. La figura autorevole dice che seguire la biografia dell’autore è un errore. La figura autorevole è convinta che l’opera esista in uno stato ideale (astorico, alpino, nevoso, puro). La figura autorevole ignora il naturale sentimento ispirato dalla conoscenza della biografica di una persona. La figura autorevole diventa tagliente se si affronta l’argomento. La figura autorevole sostiene di poter apprezzare l’opera indipendentemente dalla biografia, dalla storia. La figura autorevole si schiera con l’artista (uomo), contro il pubblico.
Io invece non sono astorica né insensibile alla biografia. Sono caratteristiche dei vincitori della storia (gli uomini) (finora).Non sto dicendo che ho ragione o torto. Ma sono il pubblico. E sto semplicemente prendendo atto della realtà di una situazione. Il fatto che conosciamo la vicenda di Soon-Yi interferisce con Manhattan. Ma il film è anche indecente di per sé. E ha anche tante qualità abbastanza straordinarie. Tutte queste cose possono essere vere allo stesso tempo. Sentirsi dire dagli uomini che la storia di Allen non dovrebbe avere importanza non fa sì che non abbia importanza.
Cosa devo fare con questo mostro? Ho una qualche responsabilità, in un senso o nell’altro? Devo respingerlo o devo superare la mia avversione biografica e guardare, leggere, ascoltare? E perché il mostro ci fa – mi fa – tanto arrabbiare? Il pubblico vuole qualcosa da vedere, leggere o ascoltare. È questo che lo rende un pubblico. Allo stesso tempo, in questo particolare periodo storico in cui siamo sommersi da rivelazioni ripugnanti, il pubblico è ripetutamente disgustato dai nuovi mostri. Il pubblico si esalta unendosi al coro di denunce dei mostri. Il pubblico gira i tacchi e giura che non vedrà mai più un film con Kevin Spacey. È possibile che i sentimenti del pubblico siano puri, legittimi e autentici.
Ma potrebbe esserci dell’altro. Quando si prova un sentimento morale, l’autocompiacimento è sempre dietro l’angolo. Avvolgiamo le nostre emozioni in un linguaggio etico, e ci ammiriamo nel farlo. Siamo guidati da un’emozione, un’emozione attorno alla quale disponiamo un linguaggio. La trasmissione della nostra virtù ci sembra estremamente importante e stranamente elettrizzante. Ricorda: non “voi”, non “noi”, ma “io”. Smettiamo di schivare la proprietà. Io sono il pubblico. E sento che c’è qualcosa di assolutamente inaccettabile che si annida dentro di me.
Anche nel bel mezzo della mia legittima indignazione, quando mi lamento di Woody Allen e Soon-Yi so che io stessa, in un certo senso, non sono una cittadina completamente integra. Certo, sono in sintonia con i miei figli e piena di attenzioni verso i miei amici. Ho una casa accogliente, ascolto mio marito e sono ragionevolmente premurosa con i miei genitori. Nei miei pensieri e nelle mie azioni quotidiane sono una persona tutto sommato decente. Ma sono anche qualcos’altro, qualcosa che somiglia vagamente a, be’, un mostro. I vittoriani capivano bene questa sensazione. Per questo ci hanno lasciato gli sdoppiamenti estremi di Dorian Gray, di Jekyll e Hyde.
Suppongo che questa sia la condizione umana, questo strisciante sospetto della nostra cattiveria. È all’origine dell’attrazione che proviamo verso chi commette atti orribili. Qualcosa dentro di noi – dentro di me – risuona alla vista di quell’orrore, lo riconosce dentro di sé, è atterrito da questo riconoscimento, e poi si esalta nello scagliare vibranti attacchi al mostro. Lo psicodramma della pubblica condanna dei mostri può essere considerato un elaborato sviamento: qui non c’è nulla da vedere. Non sono un mostro.
Perché invece non dai un’occhiata a quel tizio laggiù? Sono un mostro? Non ho mai ucciso nessuno. Sono un mostro? Non ho mai fatto l’apologia del fascismo. Sono un mostro? Non ho mai molestato un bambino. Sono un mostro? Non sono stata accusata da decine di donne di averle drogate e stuprate. Sono un mostro? Non picchio i miei figli (per ora!). Sono un mostro? Non sono nota per il mio antisemitismo. Sono un mostro? Non ho mai guidato una setta a sfondo sessuale in cui imprigionavo delle ragazze in una lussuosa villa di Atlanta obbligandole a eseguire ogni mio ordine. Sono un mostro? Non ho mai commesso lo stupro anale di una tredicenne. Considerate tutte le cose orribili che non ho fatto. Forse non sono un mostro.
Ma ecco una cosa che ho fatto: ho scritto un libro. Poi un altro. Ho scritto saggi e articoli di critica. Forse questo fa di me un mostro, in un modo molto particolare. Il critico Walter Benjamin ha detto: “Alla base di ogni grande opera d’arte c’è un cumulo di barbarie”. Le mie opere non possono certo essere definite grandi, ma mi chiedo: alla base di ogni opera d’arte minore c’è forse un piccolo cumulo di barbarie? Un mucchietto di barbarie? Un pizzico? Bisogna possedere molte qualità per esercitare il lavoro di scrittore o di artista. Talento, cervello, tenacia. Anche avere dei genitori benestanti aiuta, questo è poco ma sicuro. Ma tra gli ingredienti principali direi che il primo è l’egoismo.
Un libro nasce da tanti piccoli atti di egoismo. Tagliare fuori la tua famiglia. Trascurare i figli. Dimenticare il mondo reale per inventarne uno nuovo. Rubare storie alle persone reali. Tenere la parte migliore di sé per quell’anonimo amante senza volto che è il lettore. Dire quello che devi dire. Devo chiedermi: forse non sono abbastanza mostruosa.
Sono consapevole dei miei difetti come scrittrice (conosco la lista a memoria, anche se i difetti che non sono in grado di riconoscere sono ben peggiori), ma una piccola parte di me deve chiedersi: se fossi più egoista, le mie opere sarebbero migliori? Dovrei aspirare a un maggiore egoismo? Ogni scrittrice-madre che conosco si è fatta questa domanda. Ovviamente nessuna la formula apertamente. Ma sento che la pensano. È quasi assordante. È possibile che un’identità interferisca fatalmente con l’altra? Il tuo lavoro ti rende una madre peggiore? Ecco la domanda che ti fai in continuazione. Ma ti chiedi anche: il tuo essere madre ti rende una scrittrice peggiore? Ed è una domanda un po’ più scomoda.
Jenny Offill coglie quest’idea in un brano del suo romanzo Sembrava una felicità, un brano molto condiviso tra le scrittrici e artiste che conosco. “Il mio piano era di non sposarmi mai. No, io volevo diventare un mostro d’arte. Le donne non diventano mai mostri d’arte, perché i veri mostri d’arte si preoccupano solo d’arte e mai di cose terrene. Nabokov non si chiudeva nemmeno l’ombrello, era Vera che gli leccava i francobolli”. Io odio leccare i francobolli. Un mostro d’arte, ho pensato leggendo questo brano.
Sì, mi piacerebbe essere un mostro d’arte. Le mie amiche provavano la stessa cosa. Victoria, un’artista, se n’è andata in giro canticchiando “mostro d’arte” per qualche giorno. Le scrittrici che conosco desiderano ardentemente essere mostruose. Lo dicono en passant, facendo battute: “Come vorrei avere una moglie”. Cosa intendono dire, in realtà? Che vorrebbero smettere di accudire per potersi dedicare ai sacramenti egoisti legati alla condizione dell’artista. E se non fossi abbastanza un mostro?
Da anni faccio questa domanda a un paio di amici scrittori che considero davvero eccezionali. Scrivo a entrambi delle email carinissime, ma quello che in realtà cerco di sapere è: quanto siete egoisti? O per dirla altrimenti: quanto devo essere egoista per diventare brava quanto voi? Molto egoista, come ho scoperto osservando da lontano questi uomini. Egoista al punto di chiuderti a chiave per non essere disturbato da tuo figlio mentre lavori. Al punto di lavorare ogni giorno compresi Natale e il giorno del ringraziamento. Di sparire per quattro settimane per fare i tour di presentazione dei libri. Di andare a letto con delle tizie incontrate alle conferenze. Egoista al punto di non tirarsi indietro davanti a nulla.
Una sera, non molto tempo fa, ero seduta nel salotto disordinato e cosparso di libri di una scrittrice più giovane e di suo marito, anche lui scrittore. I bambini erano a letto, al piano di sopra. Ogni tanto da su arrivava qualche lamento. La mia amica era alle prese con quel problema: i tre figli erano alle elementari, il marito aveva un lavoro a tempo pieno e lei cercava di costruirsi una carriera scrivendo libri. Una nuvola d’intensa ambizione letteraria incombeva sulla casa come un piccolo microclima temporalesco.
Era un giorno feriale. Saremmo tutti dovuti essere a letto. Invece stavamo bevendo vino e discutendo di lavoro. Il marito era molto carino con me, nel senso che rideva a ogni mia battuta. Era molto sveglio e con i nervi a fior di pelle, forse perché i suoi libri non avevano successo. Sua moglie, invece, stava avendo successo, molto successo, con i suoi libri. La moglie ha parlato di un racconto che aveva appena scritto e pubblicato. “Oh, ti riferisci all’ultima volta che hai abbandonato me e i bambini?”, ha chiesto il marito tanto carino. La moglie era stata un mostro, abbastanza da finire il suo lavoro. Il marito no.
Ecco come si presenta la mostruosità femminile: l’abbandono dei figli. Sempre. La donna mostro è Doris Lessing che molla i figli e se ne va a Londra a vivere da scrittrice. O Sylvia Plath, il cui suicidio fu terribile, ma peggio ancora fu il fatto che sigillò la stanza dei figli prima dell’atto. Lasciamo stare il latte e il pane che lasciò accanto a loro, di per sé una sorta di terribile poesia. Sognava di mangiare uomini come aria di vento, ma la cosa davvero mostruosa fu che lasciò i figli senza una madre. Forse, quando sei una scrittrice, non ti uccidi né abbandoni i tuoi figli. Ma qualcosa l’abbandoni, la parte accudente di te.
Quando finisci un libro, per terra ci sono tante piccole cose infrante: promesse, impegni, appuntamenti mancati. E altre cose, più gravi, dimenticate o non soddisfatte: compiti dei figli che non hai controllato, chiamate ai genitori che non hai fatto, sesso coniugale che non hai consumato. Tutte cose a cui devi venire meno perché il libro possa essere scritto. Certo, possiedo la mostruosità ordinaria di una persona in carne e ossa, gli abissi insondabili, il mister Hyde represso. Ma possiedo anche una mostruosità più visibile e quantificabile, quella dell’artista che porta a termine il suo lavoro. Chi conclude qualcosa è sempre un mostro.
Woody Allen non prova semplicemente a fare un film all’anno, prova a farne uscire uno all’anno. Per me la particolare mostruosità del completamento di un’opera è sempre stata strettamente associata alla solitudine: voltare le spalle alla famiglia, piazzarmi in un bungalow di amici o nella stanza di un motel da quattro soldi. Se non riesco a distaccarmi del tutto, allora mi rintano nel mio ufficio ghiacciato, avvolta nelle sciarpe, con i guanti senza dita e un cappello di pelliccia calato sulla testa, e scrivo come una forsennata, provando a finire. Perché è il completamento che fa di me un artista. L’artista dev’essere non solo abbastanza mostro da cominciare un’opera, ma anche da finirla. E da commettere tutti i piccoli atti di barbarie tra l’inizio e la fine.
La mia amica e io non avevamo fatto nulla di più mostruoso che aspettarci che qualcuno si occupasse dei nostri figli mentre finivamo il nostro lavoro. Non è grave come uno stupro, e neanche come obbligare qualcuno a guardarti mentre ti masturbi ed eiaculi nel vaso di una pianta. Potrebbe sembrare che io stia facendo un collegamento inquietante tra uomini predatori e donne che portano a termine un’opera. Ed è proprio così. Perché quando noi donne facciamo quello che va fatto per scrivere o produrre arte, a volte ci sentiamo mostruose. E gli altri sono pronti a descriverci così.
La compagna di Hemingway, la scrittrice Martha Gellhorn, non pensava che l’artista dovesse essere un mostro. Pensava che il mostro dovesse farsi artista. “Un uomo deve essere un grande genio per farsi perdonare di essere una creatura così spregevole” (immagino parlasse per esperienza). Voleva dire che se sei una persona davvero orribile, sei spinto a raggiungere la grandezza per farti perdonare dal mondo per tutte le cose mostruose che gli farai.
In un certo senso è una revisione in chiave femminista dell’intera storia dell’arte. Una storia che Gellhorn trasforma, attraverso quest’unica, mordace battuta, in un racconto morale sul risarcimento. Sia quel che sia, la domanda rimane: che fare con i mostri? Possiamo e dobbiamo amare le loro opere? Gli artisti ambiziosi sono tutti mostri? Spunta una vocina: e io, sono un mostro?
(Traduzione di Francesca Spinelli)
Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2017 nel numero 1236 di Internazionale.
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