Ci sono due storie. Nella prima un padre ha molestato la figlia di sette anni. Nella seconda una madre ha plagiato la figlia convincendola ad accusare ingiustamente il padre. Queste due storie, una raccontata da Mia Farrow e dai suoi sostenitori, l’altra da Woody Allen e dai suoi, sono palesemente in contraddizione. Nessuna persona sana di mente può accettarle entrambe. Fondamentalmente, solo una delle due ci fa sentire (più o meno) a nostro agio quando rivediamo Io e Annie.

Quando è scoppiato lo scandalo, nel 1992, ero un’adolescente, quindi l’ho vissuto attraverso il prisma distorto delle rappresentazioni di genere dei film e dei programmi tv dell’epoca e dei tabloid che leggevo di nascosto al supermercato: una donna doveva essere carina ma non troppo, sexy ma non troppo, intelligente ma non troppo, emancipata ma soprattutto nel senso di “libera di portare i tacchi alti e d’indossare vestiti che mettono in risalto le tette” (ma per te stessa! Perché lo vuoi tu!), senza sfidare di fatto nessuna autorità. Vi dico una cosa divertente sui tacchi alti: rendono molto più complicato scappare. Ovunque mi voltassi, la cultura popolare mi ripeteva continuamente che per una donna era facilissimo essere sbagliata, in tutti i campi: dall’aspetto fisico al lavoro fino alle accuse di molestie.

Mi ricordo ancora un articolo, probabilmente del National Enquirer, un settimanale scandalistico, che metteva a confronto le ginocchia delle donne famose. L’unica star all’altezza della situazione era Mary Hart, la conduttrice di Entertainment tonight. L’articolo diceva che aveva un bellissimo paio di gi­nocchia.

Ho pensato a questo modo di raccontare le donne mentre guardavo (per due volte, con gli occhi spalancati tipo Alex in Arancia meccanica) Allen v. Farrow, il documentario in quattro puntate di Amy Ziering, Kirby Dick e Amy Herdy sulla rottura del rapporto tra Woody Allen e Mia Farrow, tra accuse e controaccuse, cause di affidamento e appelli in tribunale. La coppia si è incontrata nel 1979 e ha avuto un figlio insieme nel 1987, Ronan Farrow (che ha cambiato nome, prima si chiamava Satchel). Nel 1991 Allen ha adottato formalmente i due figli più piccoli di Mia Farrow: Dylan, quella che poi lo ha accusato di molestie, e Moses.

Nel gennaio del 1992 Farrow ha trovato delle polaroid sessualmente esplicite scattate da Allen a un’altra delle sue figlie, la maggiore, Soon-Yi Previn, che allora aveva 21 anni. A quanto dice Dylan Farrow, Allen l’avrebbe molestata nell’agosto di quell’anno, dopo essere rimasto solo con lei per una ventina di minuti mentre era in visita a casa di Mia Farrow nel Connecticut. Preoccupata per quello che le avevano riferito le babysitter e la stessa Dylan, Farrow ha portato la bambina da un pediatra, che ha denunciato le sospette molestie alla polizia. Allen ha chiesto l’affidamento della figlia. È partita un’inchiesta penale. I mezzi d’informazione hanno raccontato la vicenda con l’entusiasmo febbrile tipico delle parate circensi (Allen, da parte sua, ha sempre negato le accuse).

Prima di Allen v. Farrow, Dick e Ziering hanno realizzato The invisible war, una denuncia delle aggressioni sessuali nell’esercito, e The hunting ground, sulle aggressioni nei campus universitari. Il loro ultimo film, On the record, parla delle accuse contro il produttore musicale Russell Simmons (che ha negato di aver mai avuto rapporti sessuali non consensuali). Quindi no, Allen v. Farrow non è esattamente imparziale. Ma d’altronde, siamo sicuri di volere proprio l’imparzialità quando si parla di molestie sessuali?

Allen e Soon-Yi Previn hanno rifiutato di partecipare alla serie perché, secondo un loro portavoce, i registi non li avrebbero avvertiti per tempo. Del resto, non è che Allen sia mai stato particolarmente bravo a sostenere la sua causa. In una conferenza stampa del 1992 piagnucolava e faceva l’offeso; poi, in un’intervista al programma 60 minutes, aveva detto che non avrebbe potuto molestare la figlia in quel momento specifico, perché sarebbe stato “illogico”. È così che funzionano le aggressioni a sfondo sessuale per gli uomini? Si fa prima un’attenta lista dei pro e dei contro? A proposito, vi ricordate come si chiama il film di Allen del 2015 su un professore assassino che va a letto con una sua giovane allieva? Irrational man.

Ho imparato una lezione dai mezzi d’informazione degli anni ottanta e novanta: la vittima, per essere tale, dev’essere perfetta. Altrimenti è quasi sicuramente colpa sua

Allen v. Farrow cita diversi elementi a favore di Allen, in particolare un rapporto della clinica per gli abusi sessuali sui minori dell’ospedale di Yale-New Haven secondo il quale Dylan si sarebbe inventata tutto o sarebbe stata plagiata dalla madre. Dall’altra parte ci sono le testimonianze, rese sia in tribunale sia davanti alla telecamera, delle babysitter, degli amici di famiglia e della stessa Dylan. Perfino il giudice della causa per l’affidamento ha definito il comportamento di Allen “grossolanamente inopportuno”.

Al cuore della questione, però, c’è l’aritmia rappresentata da queste due storie contrapposte. Fino a pochissimo tempo fa, infatti, l’opinione pubblica ha scelto a grande maggioranza la storia che ha permesso ad Allen di continuare a fare film: film in cui giovani donne relativamente deboli hanno rapporti volontari con uomini più anziani e potenti.

Tra l’estate e l’autunno del 2020, mentre il mio matrimonio stava pian piano implodendo, passavo il poco tempo libero che avevo a fare jogging nel parco vicino al mio appartamento a Brooklyn cercando, credo, di capire la mia personale storia, otto chilometri e mezzo alla volta. Mentre correvo, ascoltavo You’re wrong about, un podcast irriverente e affilato come una lama che parlava spesso di donne che erano state diffamate negli anni ottanta, novanta e duemila: Anna Nicole Smith, Tonya Harding, Janet Jackson, Monica Lewinsky e altre.

Queste vicende presentavano vari gradi di colpevolezza individuale, ma la cultura popolare aveva immancabilmente trovato il modo d’incolpare la donna, spesso per giustificare un uomo molto più colpevole. Prendiamo, per esempio, Janet Jack­son e il nipplegate (lo scandalo del capezzolo), che non ha mai sfiorato Justin Timberlake. O Monica Lewinsky, dipinta come una ragazza facile, come se questo in qualche modo cancellasse lo scandaloso squilibrio di potere nel rapporto tra lei e Bill Clinton, che era il presidente degli Stati Uniti. Tutto questo mi ha ricordato un’altra lezione che ho imparato dai mezzi d’informazione degli anni ottanta e novanta: la vittima, per essere tale, dev’essere perfetta. Altrimenti è quasi sicuramente colpa sua.

Questa particolare narrazione riemerge nel documentario Framing Britney Spears. Il film racconta l’ossessione dei mezzi d’informazione degli anni duemila per la storia di una star che si comporta in modo inappropriato, una ragazzina sregolata che si scatena alle feste quando dovrebbe starsene a casa. “Britney: out of control” (Britney: fuori controllo), recitava una copertina di Us Weekly. Ma il controllo di chi? Il tabloid dipinge Spears come la responsabile di questa spirale, guardandosi bene dall’accusare i veri detentori del potere: i direttori delle riviste e i dirigenti delle case discografiche che avevano creato e plasmato la sua immagine per trarne profitto.

Ho chiesto a Sarah Marshall, giornalista e conduttrice di You’re wrong about, perché la cultura popolare ama dipingere le donne come complici e meritevoli di disprezzo. “Perché così si giustifica il fatto di tenerle soggiogate”, ha risposto. “Se le donne vengono colpite indiscriminatamente ogni volta che hanno un potere che viene percepito come allarmante – anche se non lo è – magari staranno più attente a come lo esercitano”.

La cultura popolare ha finalmente voltato pagina? In una recente intervista telefonica, Anne Helen Petersen, esperta di gossip e autrice di Too fat, too slutty, too loud: the rise and reign of the unruly woman (Troppo grassa, troppo porca, troppo eccessiva: ascesa e dominio della donna ribelle), mi ha parlato dell’atteggiamento comprensivo verso Allen, Michael Jackson e R. Kelly negli anni novanta e duemila. “In quel momento secondo me non eravamo ancora attrezzati per affrontare storie di molestie sessuali”, ha detto. Ora, invece, “vedo un cambiamento nel nostro apparato linguistico che ci consente di capire e di condannare quando ci sono delle molestie”.

Questo cambiamento si percepisce nel modo in cui sono stati affrontati gli scandali del 2020, che hanno visto coinvolti personaggi come Marilyn Manson, Shia LaBeouf e altri. Quando si tratta di gossip e censura, però, la bilancia pende ancora a favore degli uomini. Armie Hammer ha dovuto scrivere nero su bianco di voler mangiare una donna per provoca­re scandalo (l’attore ha poi smentito le accuse); a Cardi B e Megan Thee Stallion, invece, è bastato rappare sull’eccitazione femminile. Poche settimane dopo l’uscita di Wap, Megan Thee Stallion ha accusato il rapper Tory Lanez di averle sparato, accusa che Lanez ha smentito. Sui social network, alcuni utenti hanno scritto che lei se l’era cercata.

La serie Allen v. Farrow, forse perché si schiera in modo così acritico con Mia Farrow, non convincerà tutti. Però, a prescindere da cosa sia o non sia successo in quell’angolo del Connecticut nel 1992 (anche se sappiamo, o dovremmo sapere, che le molestie sessuali sui minori sono spaventosamente comuni e che le false dichiarazioni di molestie sono rare), la nostra cultura ha creduto a una storia sola. Come ha detto una Dylan Farrow ormai adulta in un’intervista alla Cbs del 2018: “La cosa per me incomprensibile è che questa storia assurda secondo la quale mi avrebbero fatto il lavaggio del cervello e sarei stata plagiata è ritenuta più credibile del fatto che io possa essere stata aggredita sessualmente da mio padre”.

Com’è possibile? Semplice: perché quella “storia assurda” rafforza norme consolidate di potere e controllo. Perché conferma l’immagine della donna come una creatura subdola e inaffidabile. Perché dire che una donna è sbagliata – per le sue ginocchia, per la sua autonomia – è una delle occupazioni preferite della nostra cultura. E se una donna come Mia Farrow, carina, affermata, relativamente ricca, può essere dipinta come un mostro, diventa molto più facile delegittimare tutte le altre, in particolare le donne nere, che hanno più probabilità di subire violenze sessuali e meno probabilità di denunciarle.

Se credete ad Allen, la sua è una storia a lieto fine, almeno fino a quando non è arrivato il #MeToo a complicare le cose: sposa Previn, fa un film dietro l’altro, vince perfino un altro Oscar. Se invece credete a Dylan Farrow, sapete che è cresciuta nella consapevolezza che il suo molestatore è rimasto impunito e che ha avuto una carriera brillante. È un finale terribile. Quali atteggiamenti deve sacrificare la nostra cultura per immaginarne uno migliore? ◆ fas

Alexis Soloski è una critica teatrale del New York Times e del Guardian. Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo Woody Allen, Mia Farrow and what popular culture wants to believe.

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Questo articolo è uscito sul numero 1403 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati