In un articolo uscito qualche mese fa, l’Associated Press raccontava la storia di Susan Levine, una donna cresciuta ad Atlanta, in Georgia, tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta. Durante le feste, quando andava a trovare i parenti a New York, Levine diventava senza volerlo una sorta di attrazione: il suo cugino newyorchese invitava degli amici perché la sentissero parlare con il suo tipico accento del sud, chiedendo 25 centesimi di dollaro a testa per lo spettacolo.
Anche i due figli di Levine sono cresciuti ad Atlanta, ma non hanno mai parlato con lo stesso accento, caratterizzato dalle vocali allungate e dai suoni morbidi della “r”. In questa distanza generazionale c’è un’evoluzione linguistica che ha toccato ampie porzioni del sud (quando parliamo del sud degli Stati Uniti si intende la regione che si estende grosso modo dagli stati atlantici della South Carolina e della Georgia fino al Texas, attraversando anche la fascia interna e costiera del golfo del Messico, dal Mississippi alla Florida).
In alcuni posti la progressiva scomparsa di certi modi di parlare è legata a eventi traumatici. È il caso per esempio di New Orleans, in Louisiana, dove il caratteristico accento “yat” della classe operaia bianca – originariamente legato ai coloni francesi e ad altri immigrati provenienti dall’Europa – si è andato perdendo dopo l’uragano Katrina del 2005, quando decine di migliaia di abitanti lasciarono la città, poi sostituiti un po’ alla volta da persone arrivate da altre zone.
Ma altrove il declino dell’accento sudista è stato frutto di un processo “naturale”. Tornando ad Atlanta, lì la tipica parlata dagli afroamericani è diventata meno comune principalmente a causa dell’afflusso di neri provenienti dalle città del nord degli Stati Uniti, in quella che è stata descritta come la “grande migrazione al contrario”, cioè uno spostamento inverso rispetto a quello avvenuto tra il 1910 e il 1970, quando gli afroamericani del sud si trasferirono al nord per scappare dal razzismo e dalla povertà. I loro nipoti e i pronipoti sono tornati in gran numero nel sud tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila (qui un breve articolo, con mappe e video, per chi volesse saperne di più su accenti, dialetti e variazioni linguistiche regionali).
Negli stessi anni e in quelli successivi tante altre persone si sono stabilite al sud più che in ogni altra regione degli Stati Uniti (più di 5,8 milioni solo dal 2020), per motivi di studio, di lavoro o semplicemente perché volevano cambiare aria, magari per motivi politici. Se da un lato questo processo potrebbe aver “annacquato” la cultura del sud, dall’altro ha definitivamente tolto il sud dall’isolamento in cui era rimasto per buona parte della sua storia, permettendogli di avere un’influenza enorme sulla cultura e sulla politica nazionali. Come ha raccontato Amanda Mull in un pezzo uscito su Bloomberg quest’estate, gli Stati Uniti somigliano sempre di più al loro sud.
Questo processo inevitabilmente s’intreccia con le dinamiche politiche degli ultimi anni – lo spostamento a destra della società è stato alimentato anche dalla reazione su razzismo e diritti civili, partita dal sud – ma sarebbe sbagliato appiattirlo sulla figura di Donald Trump. Un po’ perché, come si diceva prima, le migrazioni interne stanno trasformando politicamente e culturalmente molte città del sud in posti che non piacciono ai repubblicani, ma soprattutto perché si tratta di un movimento cominciato tanti anni fa.
Gli storici tendono a collocare il momento della svolta negli anni cinquanta/sessanta. L’aspetto politico ovviamente giocò un ruolo importante, visto che il movimento per i diritti civili e il Civil rights act, l’insieme di leggi contro la segregazione, cambiarono le possibilità di vita per molte persone nel sud e cominciarono a cambiare il modo in cui il resto del paese vedeva il sud. Ma furono decisive anche innovazioni “pratiche”: nel 1956 fu avviato il programma nazionale per la costruzione di autostradale, che portò alla creazione di arterie interstatali che collegavano luoghi e parti del paese che prima erano difficili da raggiungere. Per il sud, sottosviluppato dal punto di vista industriale rispetto al nordest e al midwest, diventò più facile stabilire rapporti commerciali con altre regioni.
Ebbero un peso anche le decisioni dell’American Airlines e della Delta di stabilire i loro hub principali rispettivamente a Dallas e ad Atlanta, ma una novità decisiva aveva a che fare con la vita delle persone nelle case e nei locali pubblici: era l’aria condizionata.
“Nel 1966 il Texas diventò il primo stato ad avere il sistema di raffreddamento in più della metà degli edifici, e alla fine del decennio l’intero sud raggiunse quel traguardo”, racconta Mull. Nei luoghi di lavoro, nei negozi e nelle strutture mediche della regione la mortalità legata al caldo crollò, i livelli storicamente elevati di emigrazione dalla regione diminuirono e tanti dal nord cominciarono a trasferirsi verso sud. In un editoriale del 1970 il New York Times definì il censimento di quell’anno “il censimento dell’aria condizionata”, per l’evidente impatto che la tecnologia stava già avendo sulla migrazione degli americani tra le regioni.
Quel cambiamento ebbe effetti a catena: per accelerare la rinascita delle loro economie, gli stati del sud cominciarono ad attirare nuovi abitanti approvando leggi fiscali favorevoli, mentre molte aziende si trasferirono nel meridione per approfittare delle norme più permissive sul lavoro, dello scarso livello di sindacalizzazione e dei salari nettamente più bassi. L’esempio più evidente riguarda il settore automobilistico, che in pochi decenni ha spostato in parte il suo baricentro da nord a sud, man mano che gli stati meridionali si sono posti come alternativa non sindacalizzata agli stati del nordest per la produzione di macchine. Un po’ alla volta sono arrivati anche i lavoratori ben retribuiti del settore dei servizi – finanza, sanità, energia –, che hanno cominciato a comprare case nei sobborghi delle città, facendo aumentare il valore degli immobili e le risorse delle amministrazioni locali.
Poi sono arrivati anche tanti studenti alla ricerca di rette più basse, costi della vita più accessibili, programmi sportivi prestigiosi (soprattutto nel football) e un clima decisamente più piacevole rispetto a quello del nordest, dove hanno sede le università più importanti. E sono arrivati perfino gli studi cinematografici e televisivi, grazie ai grandi pacchetti di incentivi fiscali messi a punto da vari stati, in particolare Georgia e Louisiana. Oggi Netflix ha un enorme complesso ad Atlanta e molti film Marvel dell’ultimo decennio sono stati realizzati in Georgia, uno stato con una grande varietà paesaggistica che permette di girare in tante location diverse.
Il motore principale della crescita, ieri come oggi, restano le persone arrivate da altri paesi
Nel frattempo anche il baricentro della musica americana si è spostato verso sud: prima con l’hip hop, in particolare grazie alla scena di Atlanta, e più di recente con la rinascita del country. Per Mull sono due facce della stessa medaglia, nel senso che “parte dell’interesse dimostrato negli ultimi anni per la cultura bianca meridionale, compreso il country, sembra essere una reazione all’onnipresenza della creatività nera meridionale, soprattutto nella musica”.
Negli ultimi cinque anni il sud si è trasformato ancora grazie all’arrivo di persone attirate dalle norme sanitarie meno restrittive durante la pandemia e di altre che non volevano o non potevano più vivere nelle grandi città della costa ovest, costose e appesantite da una crisi sociale e politica che sembra diventata cronica. Ma il motore principale della crescita, ieri come oggi, restano le persone arrivate da altri paesi. Nel corso dei decenni l’economia e la cultura della regione hanno tratto enormi benefici dall’afflusso di immigrati da tutto il mondo, soprattutto nelle principali città. Nel 2023 quasi un quarto della popolazione metropolitana di Houston era costituita da immigrati, tra cui grandi comunità di persone provenienti da Messico, Vietnam, Nigeria, India e Cina. Da metà 2020 a metà 2024, due terzi delle oltre 200mila persone che si sono trasferite nell’area metropolitana di Atlanta provenivano da un altro paese. Altre città, come Nashville e Dallas, hanno registrato dati simili (qui dati più completi su tutto il paese).
È facile capire che il sud ha molto da perdere dalla guerra di Trump all’immigrazione.
In base ai dati provvisori pubblicati nelle ultime settimane dal Pew Research Center e dall’American Enterprise Institute, il 2025 potrebbe essere il primo anno in cui diminuisce la popolazione complessiva degli Stati Uniti. La colpa non sarebbe della natalità – da tempo in calo – ma della brusca riduzione del numero di nuovi immigrati dovuta alle politiche dell’amministrazione Trump.
Come ha spiegato il giornalista Derek Thompson nella sua newsletter, tra gennaio e giugno la popolazione di origine straniera negli Stati Uniti è diminuita per la prima volta in decenni di più di un milione di persone. Se i dati dovessero essere confermati, sarebbe un fatto epocale. “Per quasi 250 anni”, ha spiegato Thompson, “’la popolazione in America è sempre cresciuta. Secondo le stime più affidabili, è cresciuta durante la guerra civile, nonostante la morte di oltre 700mila americani, è cresciuta durante l’influenza spagnola, durante le due guerre mondiali e innumerevoli sanguinosi conflitti con altri paesi. Nemmeno il covid, che ha ucciso più di un milione di statunitensi, ha invertito la tendenza”.
Le conseguenze economiche e sociali sarebbero profonde. Con sempre meno immigrati la forza lavoro cala, la domanda di case e servizi si contrae, interi settori rischiano di collassare: dall’agricoltura, che si regge su lavoratori stranieri stagionali, all’edilizia, dove più della metà dei dipendenti è nata fuori dagli Stati Uniti, fino alla sanità, in cui gli immigrati rappresentano una quota rilevante di medici, infermieri e assistenti. Per gli stati del sud, i cui governatori hanno aderito con entusiasmo alla guerra di Trump contro gli immigrati, il rallentamento dei flussi migratori rischia di dare un colpo durissimo.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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