Il 1 luglio, pochi giorni prima che il maltempo e le alluvioni colpissero la zona centrale del Texas, causando più di cento morti, qualche centinaia di chilometri più a est una piccola tempesta è arrivata sulla Florida. Per la precisione sulle Everglades, la regione paludosa nella punta meridionale dello stato. È lì che le autorità statali hanno costruito in gran segreto e in tempi record (appena otto giorni) la prigione ribattezzata orgogliosamente Alligator Alcatraz, il nuovo fiore all’occhiello della campagna di espulsioni di migranti dell’amministrazione Trump.

Quel giorno, nelle stesse ore in cui il presidente ha visitato ufficialmente il sito (ironizzando sul fatto che gli immigrati che cercheranno di evadere dovranno imparare a correre a zig zag per scappare dagli alligatori), è bastata un po’ di pioggia perché si allagassero alcuni ambienti della struttura. Il direttore della protezione civile dello stato, Kevin Guthrie, ha detto che la prigione, che entro luglio dovrebbe ospitare fino a cinquemila persone, “è progettata per resistere a venti di 110 miglia all’ora (180 chilometri orari)”. Poi ha aggiunto che il dipartimento ha un piano di evacuazione in caso di tempesta grave, ma non ha fornito dettagli.

In realtà ci sono pochi dubbi sul fatto che una struttura del genere, realizzata con grandi tendoni sopra celle erette con recinzioni metalliche, docce e servizi igienici portatili, sia molto vulnerabile agli uragani che regolarmente si abbattono sulla regione in estate (senza contare il gran caldo e l’umidità che renderanno la prigione invivibile per i detenuti).

Alligator Alcatraz è una sorta di concentrato di tutti i negazionismi di quest’amministrazione: della crisi climatica, dei diritti civili, del buonsenso. E mostra cosa sia concretamente il piano di espulsioni del presidente.

Visitando la struttura, Trump ha affermato che presto ospiterà “alcuni dei migranti più minacciosi, alcune delle persone più feroci del pianeta”. I dati mostrano invece che nelle strutture dell’Immigration and customs enforcement (Ice, l’agenzia responsabile del controllo delle frontiere) è in netto aumento la quota di persone senza precedenti penali. Spiega Npr: “Almeno 56mila immigrati sono detenuti nei centri dell’Ice. Secondo il Deportation data project, un gruppo che raccoglie dati sull’immigrazione, circa la metà di quelle persone non ha precedenti penali”. Come avevo scritto qualche settimana fa, è la conseguenza inevitabile degli obiettivi fissati da Trump e dal suo consigliere Stephen Miller, che chiedono tremila arresti al giorno e un milione in un anno, cosa che ha fatto crescere le retate “a strascico”.

Un modo per inquadrare la questione è che Trump e i repubblicani a livello statale stanno costruendo nuove prigioni per metterci dentro persone che sarebbero utili alla società e al mercato del lavoro, spendendo miliardi di soldi pubblici per combattere un’emergenza che non esiste. Il paradosso è che tutto questo succede proprio mentre la popolazione carceraria statunitense si riduce drasticamente.

Dopo aver raggiunto un picco di poco più di 1,6 milioni di persone nel 2009, la popolazione carceraria è scesa a 1,2 milioni alla fine del 2023 (l’anno più recente per cui sono disponibili dati) e ci si aspetta continui a diminuire nei prossimi dieci anni. È un cambiamento enorme per un paese che da molti anni ha tassi di incarcerazione spropositati rispetto a tutti gli altri paesi sviluppati, al punto che oggi tendiamo ad associare automaticamente gli Stati Uniti all’incarcerazione di massa. Per capire i motivi del cambiamento bisogna andare indietro di qualche decennio.

Per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale il tasso di incarcerazione degli statunitensi è rimasto sotto i 120 detenuti ogni centomila abitanti (più o meno in linea con quello di altri paesi ricchi). Ma a partire dalla fine degli anni sessanta gli Stati Uniti furono investiti da una lunga ondata di criminalità, causata soprattutto dall’aumento dei reati tra adolescenti e giovani adulti.

Il governo, gli stati e le città risposero con leggi molto severe, facendo esplodere la popolazione carceraria. Nel 1985 il tasso di incarcerazione era quasi raddoppiato rispetto alla tendenza storica (200 detenuti su centomila abitanti). Nel decennio successivo il numero di persone in carcere aumentò in media dell’8 per cento all’anno, superando il milione nel 1994 e continuando a crescere fino al 2009.

Quelle leggi non solo mandavano tante persone in carcere (spesso per reati non violenti) ma creavano anche un circolo vizioso che si è autoalimentato per decenni: siccome la maggior parte delle persone che uscivano di prigione tendevano a tornarci più volte, il sistema era continuamente rifornito di nuovi detenuti, anche molti anni dopo che l’ondata di criminalità era finita. Questo spiega perché il picco di incarcerazioni è arrivato nel 2009, diciotto anni dopo il picco del tasso di criminalità del 1991. Sull’Atlantic Keith Humphreys ha scritto che “il sistema carcerario statunitense è come un autotreno molto pesante: ci vuole tanto tempo per fermarlo anche dopo aver azionato i freni”.

Durante la seconda metà dello scorso decennio gli effetti di quel lontano giro di vite si sono esauriti, e la popolazione carceraria ha cominciato a riflettere la situazione reale della società, in cui la criminalità continuava a diminuire. C’è stata una piccola, nuova inversione di tendenza durante e subito dopo la pandemia di covid, quando i reati nelle città sono aumentati per poi tornare a calare nel giro di poco, segno che la diminuzione era frutto di una dinamica consolidata.

A beneficiarne sono stati soprattutto i giovani. Se nel 2007 il tasso di incarcerazione dei maschi di 18 e 19 anni era più di cinque volte superiore a quello dei maschi di più di 64 anni, oggi i ragazzi in quella fascia di età, in cui generalmente si tende a commettere più crimini, sono incarcerati a un tasso pari alla metà di quello degli adulti.

Particolarmente evidente, e per molti inaspettata, è stata la trasformazione del sistema penale minorile. Dopo che inchieste giornalistiche e documentari hanno svelato abusi nei centri minorili e studi scientifici hanno dimostrato che anche brevi periodi in prigione peggiorano le prospettive di vita e aumentano il rischio di abbandono scolastico e recidiva, molte giurisdizioni hanno scelto programmi che puntavano alla prevenzione e al reinserimento invece che alla sola punizione. Dal 2000 al 2020 il numero di giovani incarcerati è crollato del 77 per cento.

Alcuni stati hanno chiuso decine di istituti minorili e investito sulla collaborazione tra procure, forze di polizia e associazioni comunitarie nate per fare formazione e fornire supporto psicologico. Studi economici e sociologici hanno confermato che questi interventi non solo aiutano i giovani ma riducono anche i tassi di criminalità. Il caso di New York è emblematico: dopo la chiusura di 26 strutture minorili, la criminalità giovanile è calata dell’86 per cento.

Non è difficile immaginare che grande differenza faccia per una società non avere milioni di giovani dietro le sbarre, ma i vantaggi di una popolazione carceraria più ridotta, spiega Humphreys, non si limitano alle persone che rischiano di finire in carcere e alle loro famiglie.

“Le prigioni sottraggono risorse ad altre priorità politiche per le quali molti elettori vorrebbero che il governo spendesse di più. In tutti i cinquanta stati, il costo di un anno di detenzione supera di gran lunga il costo di un anno di scuola”. Cosa ancora più importante, i politici e l’opinione pubblica potrebbero essere costretti a mettere in discussione una serie di scelte fatte negli anni del giro di vite, per esempio abbandonando i piani per costruire nuove carceri.

Non è un processo facile: si scontra con il potere dei sindacati che rappresentano chi lavora nelle prigioni statali e federali, con l’influenza delle aziende che controllano o gestiscono le strutture private e anche con l’opposizione di molte comunità, che negli anni hanno costruito le loro economie intorno al settore carcerario. Poi c’è appunto il nuovo approccio securitario di Trump e dei repubblicani a livello statale, che però difficilmente potrà invertire una tendenza che sembra consolidata.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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