In questi giorni, per capire la portata e le possibili conseguenze della vittoria di Donald Trump, molti commentatori citano il precedente delle elezioni del 1980. Come oggi, il paese era governato da un’amministrazione democratica impopolare, quella di Jimmy Carter, che per restare al potere provò a spostare l’attenzione sulla pericolosità del programma politico del suo sfidante, Ronald Reagan. I due candidati furono vicini nei sondaggi per tutta la campagna elettorale, ma alla fine il repubblicano stravinse. Gli elettori erano arrivati alla conclusione che la continuità con Carter era un rischio maggiore del cambiamento con Reagan. Un ragionamento simile sembra aver spinto tantissime persone a votare per Trump il 5 novembre.

La vittoria di Reagan inaugurò un periodo lunghissimo, dodici anni, di governo repubblicano, che spostò il paese a destra a livello politico e culturale. Ora i repubblicani sperano che la vittoria del 5 novembre darà vita a un’altra grande era conservatrice. Alcuni elementi fanno pensare che sia difficile: Trump è molto più vecchio di quanto fosse Reagan quando arrivò alla Casa Bianca, è molto meno disciplinato a livello politico e personale e non ha nessun tipo di visione di lungo periodo; inoltre oggi il paese è più polarizzato rispetto a quarant’anni fa. Resta il fatto che Trump, come Reagan, è riuscito a conquistare i consensi di molti elettori tradizionalmente democratici, rompendo alcune dinamiche consolidate della politica statunitense.

La portata di questa rottura è descritta dalle due immagini in basso. La prima mostra l’orientamento dei vari gruppi demografici. Si vede che rispetto alle elezioni del 2020 il candidato repubblicano ha continuato a guadagnare consensi tra i sostenitori più fedeli – bianchi non laureati, sia uomini sia donne, persone tra i 44 e i 65 anni – e ne ha recuperati moltissimi nelle fasce in cui storicamente ha sempre fatto più fatica: i giovani, gli afroamericani, le persone di origine latinoamericana.

Margine del Partito repubblicano nei confronti del Partito democratico, variazione rispetto al 2020, per gruppi demografici. (Financial Times)

Nella mappa invece si vede che lo spostamento verso destra ha toccato quasi ogni zona del paese. Ogni freccia corrisponde a una contea: le blu mostrano uno spostamento a sinistra rispetto alle elezioni precedenti, le rosse uno spostamento a destra. Più le frecce sono lunghe, più lo spostamento è stato grande. Rispetto al 2020 Trump ha aumentato i margini di vittoria in stati solidamente repubblicani, come la Florida e il Texas, e ha accorciato il divario in quelli democratici, come New York, Illinois, New Jersey e Virginia. Nella sua newsletter Nate Silver ha raccontato che il clima a New York la mattina dopo il voto era molto diverso rispetto a otto anni fa, quando Trump vinse per la prima volta. “Quando stamattina ho camminato per New York, sono rimasto sorpreso da quanto tutto sembrasse normale. Niente a che vedere con il 2016, quando sembrava di essere nell’apocalisse degli zombie”.

Lo spostamento del voto a favore dei repubblicani nelle contee. (The New York Times)

I dati sui voti dai vari quartieri della città confermano la sensazione di Silver: “Nel Queens Trump ha preso il 38 per cento dei voti, contro contro il 21,8 per cento del 2016. Ha guadagnato ancora di più nel Bronx, passando dal dieci al 27 per cento”. Dinamiche simili sono state registrate in altri grandi centri urbani dove vivono molti elettori neri e ispanici, tra cui le contee che comprendono Filadelfia, Detroit e Las Vegas. Dalla mappa si capisce anche che i democratici non hanno perso così tanti consensi negli stati considerati decisivi, in particolare Michigan, Wisconsin e Pennsylvania (le frecce lì sono meno po’ più corte), ma Trump ha guadagnato abbastanza per ribaltare l’esito rispetto a quattro anni fa (Biden aveva conquistato tutti e tre gli stati e anche Arizona e Georgia). Tutte queste frecce sommate spiegano come Trump sia riuscito a conquistare per la prima volta il cosiddetto voto popolare, cioè a prendere la maggioranza dei voti a livello nazionale.

Quello che è successo il 5 novembre smentisce alcuni degli assunti che in questi anni abbiamo usato per descrivere la politica americana, a cominciare dall’idea che Trump fosse troppo estremista per riuscire ad allargare la propria base elettorale.

In realtà a questo punto della sua carriera politica, dopo otto anni in cui ha alzato continuamente il tiro facendo e dicendo cose sempre più violente, il suo estremismo è normalizzato. Non vuol dire che piaccia alla maggioranza del paese, ma evidentemente non è percepito come il problema più urgente dalla maggior parte degli statunitensi. Negli exit poll condotti a livello nazionale, il 54 per cento degli elettori ha concordato sul fatto che Trump fosse su posizioni “troppo estreme”, ma alcune di quelle persone hanno votato comunque per lui. Secondo un sondaggio di VoteCast, il 55 per cento degli elettori ha dichiarato di essere molto o abbastanza preoccupato che Trump possa guidare gli Stati Uniti in una direzione più autoritaria; eppure quasi uno su sei di quegli elettori lo ha sostenuto. “Una dimostrazione impressionante della loro disponibilità a rischiare un futuro incerto pur di abbandonare un presente inaccettabile”, ha scritto Ronald Brownstein sull’Atlantic.

Errori di valutazione

Se si considera che la strategia di Kamala Harris era quasi interamente basata sulla denuncia dell’estremismo di Trump, aggiungiamo un altro pezzo per spiegare la batosta subita dai democratici. Molti dei suoi attacchi erano destinati a mancare il bersaglio, anche quelli su cui teoricamente giocava in casa. Prendiamo la questione del diritto all’aborto. Prima del voto i sondaggi lo indicavano come uno dei temi più importanti per l’elettorato femminile. Harris puntava sul fatto che le donne sarebbero andare alle urne per punire Trump e i repubblicani per la loro crociata contro i diritti riproduttivi, soprattutto dove si votava anche per inserire il diritto all’aborto nella costituzione statale. In molte lo hanno fatto, ma altre non hanno avuto problemi a votare sì al referendum e allo stesso tempo a sostenere Trump. Questo contribuisce a spiegare perché Harris ha conquistato il voto femminile con un margine ridotto rispetto a quanto ci si aspettasse.

Al contrario, Trump ha allargato il suo vantaggio tra gli uomini scommettendo sulla mobilitazione dei giovani elettori, compresi gli afroamericani e quelli di origine latinoamericana, il cui voto è solitamente meno prevedibile. Gli strateghi repubblicani hanno capito che il messaggio radicale di Trump poteva funzionare presso un pubblico maschile che non si informa sui mezzi d’informazione tradizionali ma su podcast e canali YouTube gestiti da influencer di destra, si interessa poco al destino della democrazia e di più alla situazione economica e alla sicurezza, considera Biden un uomo debole e vecchio e apprezza la sfacciataggine di Trump e la sua abitudine ad andare contro le norme.

La campagna elettorale di Trump ha bombardato per mesi questi elettori, in particolare gli afroamericani e gli ispanici, con messaggi che denunciavano la deriva ideologica dei democratici – insistendo molto sulla chirurgia per la transizione di genere e sulle persone transgender nello sport – e parlavano “dell’invasione” di immigrati senza documenti che stavano togliendo “posti di lavoro ai neri” e “distruggendo completamente la popolazione ispanica”. I sondaggi hanno mostrato che circa un terzo degli elettori di origine latinoamericana è favorevole alle deportazioni di massa proposte da Trump.

È una stravolgimento notevole del mondo conservatore statunitense. Per anni i repubblicani hanno lanciato l’allarme sul fatto che il partito stesse diventando troppo bianco, incapace di attirare le minoranze, e quindi fosse destinato a perdere influenza. Dopo aver perso le elezioni nel 2012, Mitt Romney disse che il suo partito avrebbe potuto invertire questa tendenza schierandosi a favore di politiche migratorie più permissive e leggi che facilitassero i percorsi di cittadinanza per le persone senza documenti che già vivevano nel paese. Oggi, nell’era del populismo, delle guerre culturali e dell’odio contro le élite, i repubblicani sembrano aver scoperto che il nazionalismo è la formula vincente per estendere la loro base demografica.

Per altri versi quella del 5 novembre è stata un’elezione molto “tradizionale”, nel senso che il risultato è stato in buona parte determinato da valutazioni sull’economia e sulla sicurezza e dalla volontà degli elettori di punire l’amministrazione in carica. Secondo gli exit poll nazionali, due terzi degli elettori hanno definito la situazione economica “decente” o “cattiva”; la stessa quota di persone ha espresso opinioni negative su questo in tutti gli stati decisivi del nordest – Michigan, Wisconsin e Pennsylvania – e in Arizona, con un malcontento ancora maggiore in North Carolina, Nevada e Georgia.

“In tutti questi stati una solida maggioranza di questi elettori scontenti ha appoggiato Trump”, scrive Ronald Brownstein, “così come la maggioranza degli elettori che hanno dichiarato di stare peggio rispetto a quattro anni fa. Harris ha vinto nettamente tra chi ha detto di stare meglio, ma si tratta di appena un elettore su quattro. Tra i più insoddisfatti per la situazione economica c’erano gli elettori della classe operaia senza un titolo di studio”.

Servirà del tempo per capire se la vittoria di Trump metterà radici profonde nella società o si rivelerà un classico voto di protesta contro un’amministrazione impopolare, in una fase di incertezza economica e di caos internazionale. Di sicuro costringerà i democratici a mettere in discussione molte delle loro convinzioni su cosa pensano e come votano gli americani, e a prendere atto del fatto che il loro ciclo politico nato con la vittoria di Obama del 2008 è finito. La coalizione che portò alla Casa Bianca il primo presidente nero – eterogenea a livello etnico, economico, anagrafico – si è sfaldata. Dal voto del 5 novembre esce un partito che attira soprattutto persone bianche, benestanti e progressiste.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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