◆ Anni fa mio padre scrisse su un pezzo di carta un elenco di possibili titoli per dischi. Quello che più mi ha commosso è stato Shusten feste n.1965 . Il titolo è un’italianizzazione di Schützenfest , un grande ritrovo con luna park che colpì molto la sua immaginazione perché pieno di cose che non aveva mai visto, e tra queste la mia prossima venuta al mondo. Non avrei immaginato di suonare un giorno quella canzone di fronte ai presidenti della repubblica italiana e federale tedesca in qualità di figlio di Gastarbeiter . Invece è successo il 15 novembre durante una cerimonia a Berlino. Una piccola cosa ai margini di eventi più grandi: il discorso per certi versi storico pronunciato il giorno dopo da Sergio Mattarella al Bundestag e la morte in coppia delle celebri gemelle Kessler che dell’immaginario tedesco anni sessanta in Italia sono state l’emblema. Di quella lingua mio padre ricorda tenacemente i nomi di ognuno degli attrezzi da lavoro usati in cantiere. Io ancora meno. Ma una parola mi sembra importante in questo tempo d’identità sospese tra nazionalismo sovranista e omologazione universale: Heimat . Una parola femminile che non trae origine dal sangue né dal suolo, ma da un senso di appartenenza a qualcosa in cui ci si sente a casa: il suono del piano, una lingua, una parola, un dialetto. Un senso di casa che rende abitabile il mondo senza doverlo sottrarre a nessuno.
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Questo articolo è uscito sul numero 1641 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati





