Chi ha cercato di uccidere il giornalista Ahmad Hassan il 10 maggio a Diwaniya, in Iraq? Chi ha assassinato, il giorno prima, Ihab al Wazni, uno dei leader della protesta a Kerbala? Chi ha ucciso lo scorso agosto a Bassora l’attivista per i diritti delle donne Riham Yaqub, cinque giorni dopo l’omicidio dell’attivista Tahsin al Shahmani? Chi è responsabile della morte a Baghdad, un mese prima, dello studioso di questioni di sicurezza Hisham al Hashemi?
Nelle strade e nelle piazze dell’Iraq o sui social network gli slogan dei protagonisti della rivolta del 1 ottobre sono cambiati, anche se gli obiettivi iniziali restano. Prima i giovani chiedevano servizi pubblici, lavoro e la fine delle interferenze esterne nel paese, mentre ora pretendono prima di tutto che sia accertata la responsabilità di chi ha ucciso i loro compagni. “C’è un massacro in corso da venti mesi, una forma di terrorismo, che si scontra con l’assenza o la lentezza dello stato”, dice Ali al Bayati della Commissione governativa dei diritti umani. La morte di Al Wazni ha scatenato nuove proteste, che hanno raggiunto l’apice il 25 maggio. L’impressione di chi manifesta è che la vita di molti non conti nulla agli occhi delle autorità, come testimonia lo slogan “Chi mi ha ucciso?”.
Una domanda retorica
In poco più di un anno e mezzo gli omicidi politici sono stati “35 e altri 47 sono stati tentati”, spiega Al Bayati. “Settantasei persone sono state sequestrate e di 53 di loro non si sa più nulla”. La repressione delle forze di sicurezza e dei gruppi armati, inoltre, ha causato la morte di 591 manifestanti. “Gli omicidi di oppositori, attivisti o candidati indipendenti sono avvenuti anche in città considerate sicure, come Kerbala”, spiega Ali al Muallem, un attivista di Bassora di 28 anni. “Questo dimostra l’influenza, la diffusione e il radicamento delle milizie”.
Per gli attivisti “Chi mi ha ucciso?” è una domanda retorica. “Sono i partiti nati dall’islam politico che hanno preso il controllo delle istituzioni dal 2003. Sono le armi che circolano tra le milizie. Sono tutti quelli che accusano i manifestanti di essere agenti stranieri”, s’infervora l’attivista Jaafar, 30 anni, originario di Najaf, nel sud del paese. “Sono quelli che vogliono prendere il controllo degli ingranaggi dello stato anche cavalcando l’onda della protesta”, aggiunge, riferendosi in particolare al potente leader sciita Moqtada al Sadr, noto per le sue giravolte politiche.
Anche se facevano parte delle rivendicazioni iniziali degli attivisti, le elezioni legislative di ottobre oggi sono accolte con diffidenza. “Il voto da solo non è una soluzione, e non ci sono le condizioni adatte al suo svolgimento. Se il governo di Mustafa al Kadhimi non sa contrastare i gruppi armati, come si può sperare in un voto imparziale?”, chiede Jaafar. Per lui le elezioni “consentiranno alle forze del sistema di riprodursi con la farsa della legalità”.
Anche se all’inizio del suo mandato, nel maggio del 2020, si era impegnato a preservare la sovranità irachena, Al Kadhimi si è scontrato con l’onnipotenza delle milizie sostenute da Teheran, raggruppate nelle Forze di mobilitazione popolare (Fmp), una coalizione paramilitare con un piede nello stato e l’altro fuori, inclusa nell’esercito iracheno dal 2016. Un’integrazione più a parole che nei fatti. Esaltate dalla lotta contro il gruppo Stato islamico, le fazioni filo-iraniane hanno aumentato la loro potenza negli ultimi anni e si sono dotate di un braccio politico, l’Alleanza Fatah. Da questa posizione di forza, hanno inasprito la retorica di lotta all’occidente e hanno presentato la rivolta come frutto di un complotto straniero.
Al Kadhimi deve fare costantemente l’equilibrista tra Washington e Teheran. Ma per i manifestanti non è riuscito a realizzare le riforme promesse. Il 26 maggio è stato arrestato Qasim Muslih, un comandante delle Fmp accusato di aver ordinato l’uccisione di Ihab al Wazni. “Queste iniziative non devono essere solo populiste”, afferma Ali al Muallem. “Devono continuare. Se ne devono occupare le istituzioni dello stato. Invece per ora le autorità non si esprimono. Si basa tutto sulle fughe di notizie e non si fa riferimento alla legge, alla costituzione o alle procedure legali”. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1412 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati