“Stiamo diventando invisibili a Gerusalemme, relegati fuori dalla città, fuori dalla vista, nascosti dietro muri di cemento. Ma noi non ce ne andremo da nessuna parte in silenzio”. Jalal Aboukhater, uno scrittore di 26 anni, viene da Beit Hanina, un quartiere palestinese a nord di Gerusalemme. Partecipa alle mobilitazioni per sostenere e difendere gli abitanti palestinesi di un altro quartiere della zona est di Gerusalemme, Sheikh Jarrah, in ebollizione da alcune settimane. Con l’inizio del Ramadan, Gerusalemme Est si è trasformata in un terreno di scontro tra i palestinesi e i poliziotti israeliani che gli impediscono l’accesso ai luoghi di culto. Mentre gruppi israeliani di estrema destra invocano l’espulsione della popolazione araba della città, il caso di Sheikh Jarrah si aggiunge a una situazione già esplosiva.

I palestinesi si sono mobilitati per quattro famiglie: Al Kurd, Iskafi, Qassim e Jaouni, per le quali un tribunale israeliano all’inizio dell’anno ha ordinato l’espulsione, abbracciando le argomentazioni delle associazioni di coloni ebrei che reclamano dei diritti di proprietà nel quartiere. Ai palestinesi di Gerusalemme è parsa l’ennesima dimostrazione del piano israeliano per sradicare la loro presenza in città. Il verdetto della corte suprema era previsto il 10 maggio, ma la giustizia israeliana ha annullato l’udienza, con il pretesto di un calendario poco favorevole: il 10 maggio per Israele è la “giornata di Gerusalemme”, che commemora l’annessione della città da parte dello stato ebraico nel 1967. Le famiglie minacciate per ora sembrano avere due scelte: o consegnano le loro case ai coloni o raggiungono un accordo pagando un affitto e riconoscendoli come proprietari.

A Gerusalemme Est vivono più di 300mila palestinesi e quasi 210mila coloni israeliani. Considerate illegali in base al diritto internazionale – che difende il paradigma dei due stati, con Gerusalemme Ovest capitale israeliana e Gerusalemme Est capitale palestinese – le colonie sono incoraggiate dallo stato ebraico.

Le manovre dei coloni

“Tutti conosciamo Sheikh Jarrah. Ci passiamo per andare verso la città vecchia”, dice Aboukhater. Il quartiere ospita una moschea e una tomba omonima del dodicesimo secolo (lo sheikh Al Jarrah era uno dei medici di Saladino), missioni diplomatiche e uffici delle organizzazioni internazionali, oltre al sepolcro di Simeone il Giusto, sommo sacerdote venerato dagli ultraortodossi e invocato per difendere i progetti di espansione coloniale.

Da decenni gli abitanti palestinesi del quartiere devono far fronte alle manovre dei coloni che vogliono prendere possesso di questi luoghi. Negli anni settanta alcune organizzazioni di coloni tentarono un’azione giudiziaria sostenendo che in origine l’area apparteneva a delle famiglie ebree e poi cercando di espellere le famiglie palestinesi che ci vivevano. Così Sheikh Jarrah è diventato il simbolo della via crucis dei palestinesi di Gerusalemme, la storia della lenta espropriazione di un popolo, spogliato della sua “indigenità” e ridotto alla condizione di “invitato”. “Prima del 1948 c’era un piccolo quartiere ebraico, abitato principalmente da ebrei yemeniti. Ma oggi i coloni sono in maggioranza ashkenaziti, occidentali. Ci sono francesi e statunitensi, molto religiosi e nazionalisti, che vogliono rendere la loro presenza il più visibile possibile, in mezzo ai quartieri palestinesi”, dice Aboukhater.

Questa nakba senza fine è esasperata dalla violenza dei discorsi dei coloni. “Io voglio che Gerusalemme sia ebraica”, ha dichiarato al New York Times Yonatan Yosef, ex portavoce dei coloni di Sheikh Jarrah il 7 maggio. “Questa terra appartiene al popolo ebraico”. In realtà le prime espansioni dei quartieri arabi di Gerusalemme fuori dalle mura della città, alla fine dell’ottocento, furono proprio in questa zona. “Spinte dalla sicurezza garantita dagli ottomani, le famiglie di notabili musulmani si spostarono verso il nord della città e le classi medie musulmane, cristiane ed ebraiche, verso ovest”, osserva Salim Tamari, caporedattore di Jerusalem Quarterly e Hawliyyat al Quds, e professore di sociologia all’università di Birzeit.

Nessun legame

Una svolta importante ci fu con l’esodo del 1948: gli abitanti palestinesi di 39 villaggi nella parte ovest di Gerusalemme furono espulsi verso la zona est, al tempo sotto il controllo della Giordania. Qui arrivarono anche alcune famiglie palestinesi espulse dalle città e dai villaggi che si trovavano in quello che oggi è Israele. Così 28 famiglie di profughi da Jaffa e Haifa si stabilirono nel 1956 a Sheikh Jarrah, grazie a un accordo tra Amman e l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi (Unrwa). In base all’accordo, le famiglie avrebbero ottenuto dei titoli di proprietà dopo tre anni e in cambio avrebbero rinunciato allo status di rifugiati.

La guerra del 1967 portò all’occupazione israeliana di Gerusalemme Est (annessa unilateralmente nel 1980), della Cisgiordania e di Gaza. “Ci sono due punti da sottolineare. Prendiamo l’esempio della città vecchia. Qui c’era un quartiere ebraico importante, ma solo una famiglia su duemila ha reclamato il diritto di proprietà. Le altre 1.999 famiglie che si sono trasferite lì sono canadesi, statunitensi, francesi o russe e non hanno legami con chi ci viveva in passato. Questo vale per Sheikh Jarrah come per il resto di Gerusalemme”, sottolinea Tamari. “D’altro canto, le famiglie che hanno perso le proprietà a Gerusalemme Ovest e si sono rifugiate a Gerusalemme Est, anche a Sheikh Jarrah, non possono reclamare le proprietà confiscate nella zona ovest”.

Secondo Tamari quasi il 77 per cento delle proprietà situate nel lato ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani sia musulmani, prima del 1948. Ma la legge israeliana sulla proprietà degli assenti del 1950 e quella del 1953 sull’acquisizione delle terre classificano i rifugiati e gli sfollati palestinesi come “assenti”, mettendo i loro beni sotto l’autorità di un tutore e poi trasferendoli all’autorità dello sviluppo, incaricata di venderli allo stato o al Fondo nazionale ebraico.

Huda al Imam, nata a Sheikh Jarrah una sessantina di anni fa, ha conosciuto la colonizzazione israeliana prima e poi gli intrighi dell’Autorità Nazionale Palestinese, a cui molti palestinesi di Gerusalemme rimproverano di aver sfruttato il loro calvario per giustificare il rinvio delle elezioni del 22 maggio. Ma ora Al Imam sembra trascinata dalla forza di una nuova generazione in prima linea nella lotta. “È la prima volta che sento questa identità palestinese unita contro l’occupazione, anche se gli israeliani investono tanta energia per sradicare la nostra identità. Forse siamo lontani dalla creazione di uno stato, ma sicuramente formiamo una nazione”, dice. “E anche se la classe politica ha bloccato le elezioni per evitare di perdere, Gerusalemme ha nei fatti già votato”. ◆ fdl

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1409 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati