È terribile assistere all’annientamento del proprio paese. Quando penso a quello che abbiamo vissuto nell’ultimo anno, mi sembra d’impazzire. Di notte le nostre anime sono sospese nel tempo, poi arriva il mattino e dobbiamo sopportare un altro giorno. Cerchiamo una notizia che possa cambiare in meglio le nostre vite. Sogno il giorno in cui non sentiremo più il rumore costante delle bombe, degli aerei da guerra e dei droni. Il giorno in cui la morte si fermerà.
All’inizio speravo che la guerra finisse in un paio di settimane, come in passato. Non durerà più di un mese, assicuravo; se resistiamo ancora un po’ andrà tutto bene. Non capisco come facevo a essere così sicura. Forse credevo che il mondo sarebbe intervenuto per fermare questa follia. Dodici mesi dopo sembra che il mondo abbia accettato la nostra sofferenza, come se fosse normale.
Ogni volta che usciamo di casa, sappiamo che ciascuno di noi potrebbe tornare avvolto in un sudario. I bombardamenti incessanti di Israele significano che a Gaza non esiste un luogo sicuro.
In primavera mia madre e io abbiamo deciso di lasciare la Striscia di Gaza. Siamo riuscite a registrarci in un’agenzia di viaggi per uscire attraverso il valico di Rafah, le nostre valigie erano pronte e stavamo solo aspettando che i nostri nomi fossero inseriti nella lista. La notte del 6 maggio è finalmente arrivato il momento. Poi è successo l’inimmaginabile: la mattina seguente l’esercito israeliano ha invaso Rafah. La prima cosa che ha fatto è stata occupare il valico, tagliando così il nostro ultimo passaggio verso il mondo esterno. Ogni giorno aspettiamo la riapertura del valico per poter partire. Ma ogni giorno che rimango bloccata qui, perdo un po’ di speranza per il futuro di Gaza. ◆ gim
Ruwaida Kamal Amer è una giornalista di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza.
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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati