Il 13 novembre un aereo con a bordo 153 palestinesi di Gaza è atterrato in Sudafrica senza la necessaria documentazione. I passeggeri sono rimasti bloccati sull’aereo per dodici ore prima che le autorità sudafricane, che hanno dichiarato di non essere state informate dagli israeliani sul volo di espulsione, consentissero lo sbarco per motivi umanitari.

I palestinesi a bordo avevano pagato tra i 1.500 e i cinquemila dollari ciascuno a un’azienda chiamata Al Majd Europe per lasciare Gaza. L’iniziativa è gestita da alcuni palestinesi in coordinamento con le autorità di occupazione israeliane. Almeno altri due voli simili sono stati effettuati dal giugno scorso.

Questo è il metodo più recente usato da Israele per spopolare Gaza, un obiettivo storico del suo regime di apartheid che risale all’inizio del novecento.

Fin dagli albori del movimento sionista i palestinesi sono stati percepiti come un ostacolo demografico alla creazione di uno stato ebraico. Alla fine dell’ottocento Theodor Herzl, uno dei padri fondatori del sionismo, scrisse che il trasferimento degli arabi dalla Palestina doveva essere parte del progetto sionista, suggerendo che le popolazioni povere potevano essere spostate oltre i confini e private di opportunità lavorative in modo discreto e oculato. Nel 1938 David Ben Gurion, leader sionista che in seguito sarebbe diventato il primo premier di Israele, affermò di essere favorevole al “trasferimento” forzato dei palestinesi e di non vederci nulla di “immorale”. In parte questa visione fu attuata dieci anni dopo con la Nakba del 1948, quando più di 700mila palestinesi furono costretti a lasciare le loro case in quella che lo storico israeliano Benny Morris ha definito una pulizia etnica “necessaria”.

Dopo il 1948 Israele ha proseguito su questa strada. Negli anni cinquanta decine di migliaia di palestinesi e beduini palestinesi furono trasferiti con la forza dal deserto del Naqab (Negev) alla penisola del Sinai o alla Striscia di Gaza, che all’epoca si trovava sotto l’amministrazione egiziana. Dopo la guerra del giugno 1967, quando occupò Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, Israele adottò una strategia che definì di “migrazione volontaria”.

L’idea era creare condizioni di vita difficili, anche attraverso la demolizione di case e la riduzione delle opportunità di lavoro, per spingere gli abitanti ad andarsene. Lo stesso fu fatto nei campi profughi di Gaza creando degli “uffici per l’emigrazione”: chi aveva perso ogni speranza di tornare alla propria casa riceveva denaro e l’organizzazione del viaggio per partire. Israele ha anche incoraggiato i palestinesi ad andare a lavorare all’estero, soprattutto nel Golfo. Il prezzo che dovevano pagare per andarsene era l’esilio permanente.

Ultime notizie

◆ Il 17 novembre 2025 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il piano di pace del presidente statunitense Donald Trump per la Striscia di Gaza. La risoluzione conferisce mandato fino al 31 dicembre 2027 a un “comitato di pace”, presieduto da Trump. Prevede anche una “forza di stabilizzazione internazionale”, con il compito di garantire la sicurezza dei confini con Israele e l’Egitto, la smilitarizzazione di Gaza, il disarmo dei “gruppi armati non statali”, la protezione dei civili e la formazione di una polizia palestinese. La risoluzione menziona la possibilità di uno stato palestinese. Dopo la riforma dell’Autorità nazionale palestinese “potrebbero esserci le condizioni per un percorso serio verso l’autodeterminazione palestinese e la nascita di uno stato”, afferma il testo. Afp


Nessun ritorno

Dopo il 7 ottobre 2023 Israele ha visto un’altra possibilità di portare avanti il suo piano di pulizia etnica di Gaza, questa volta attraverso il genocidio e l’espulsione forzata. Ha pensato di avere la simpatia internazionale e il capitale diplomatico necessari per compiere questa atrocità, come dimostrano le dichiarazioni di vari funzionari israeliani, tra cui i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Questi ultimi hanno perfino proposto il “piano dei generali” per spopolare completamente il nord di Gaza.

Il nuovo piano per costringere i palestinesi a lasciare Gaza rientra a pieno titolo in questa tendenza storica. La differenza, però, è che stavolta i palestinesi devono pagare il proprio sfollamento forzato e la loro disperazione è sfruttata da collaborazionisti palestinesi in cerca di profitti facili. Ciò, naturalmente, impoverisce ancora di più la popolazione e crea nuove tensioni e fratture interne.

Il piano attuale, come i precedenti, ha la caratteristica fondamentale di negare il ritorno ai palestinesi. Nessuno dei passeggeri dell’aereo ha ricevuto il timbro di uscita sul passaporto, motivo per cui le autorità sudafricane hanno avuto problemi con le procedure di ingresso. Non avere un documento legale che attesti l’uscita dal territorio di Gaza occupato da Israele significa che queste persone sono classificate automaticamente come migranti irregolari e non possono tornare.

È importante chiarire perché Israele permette la partenza di questi voli, mentre impedisce l’evacuazione di palestinesi malati e feriti o di studenti ammessi in università straniere. Le loro uscite sarebbero legali e comporterebbero il diritto al ritorno, cosa che Israele non vuole permettere. Non sorprende che ci siano palestinesi pronti a cadere nell’inganno di questi voli. Due anni di genocidio hanno spinto la popolazione di Gaza a una disperazione inimmaginabile. Tanti abitanti della Striscia salirebbero volentieri su quei voli. Ma Israele non può mandarci tutti in Sudafrica.

In tutti questi decenni di occupazione sionista i palestinesi hanno perseverato. La loro tenacia di fronte a guerre, assedi, incursioni nelle case, demolizioni, furto di terre e assoggettamento economico conferma che la terra di Palestina non è solo un luogo dove vivere, ma un simbolo di identità e storia al quale non vogliono rinunciare.Negli ultimi due anni Israele ha distrutto le vite e le case di due milioni di palestinesi. E neppure tutto questo è riuscito a uccidere la loro forza d’animo e la voglia di restare aggrappati alla terra. I palestinesi non voleranno via. Siamo qui per restare. ◆ fdl

Refaat Ibrahim _ è uno scrittore di Gaza, che si occupa di questioni sociali, politiche e umanitarie legate alla Palestina. _

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Questo articolo è uscito sul numero 1641 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati