Nel 2016 Rosa Aranda Cuji, una nativa kichwa dell’Ecuador, ha deciso di opporsi allo sfruttamento del suo territorio. Il dolore più grande per lei è che l’attività di estrazione, cominciata trent’anni fa vicino al bacino del fiume Villano, ha fatto ammalare il suo popolo e la sua foresta. Aranda sa di avere il covid-19 ed è preoccupata per la sua salute, perché ci ha messo più tempo del solito per riprendersi: “Non ho potuto riposare, il lavoro occupa tutto il mio tempo”, dice. Suo marito ha ancora i postumi della malattia mentre i tre figli si sono già ripresi. Nella sua comunità, in mezzo alla foresta, varie persone sono state contagiate. Aranda spera di sentirsi meglio al più presto per continuare a lottare contro la “malattia” peggiore, quella che uccide la foresta.
Rosa Aranda ha 40 anni, gli occhi piccoli e i capelli lunghi e fini, come i fiumi della sua terra. Vive a Piwiri, nel comune di Moretecocha (provincia di Pastaza), nella zona orientale del paese. La comunità è composta da diciassette famiglie, in tutto una settantina di persone. Lei guida l’associazione Sumak Kawsay, a cui fanno capo 150 famiglie di quattro villaggi kichwa: Rayayacu, Tarapoto, Kamungui e Piwiri. Siamo alle porte dell’Amazzonia, su quello che il catasto petrolifero chiama Blocco 10: un territorio che comprende un’area di 200mila ettari di foresta attraversati dal fiume Villano, che separa Moretecocha dalla comunità di Curaray. Il consorzio Arco Oriente-Agip Oil arrivò nella zona nel 1988, ottenendo dallo stato l’autorizzazione a esplorare e sfruttare il sottosuolo. Nel 2019 il consorzio è stato acquistato dalla Petroandina Resources Corporation, del gruppo Pluspetrol.
Aranda è preoccupata perché la compagnia ha già un piede dentro Moretecocha con il pozzo di esplorazione Landayacu. Se lo stato autorizza lo sfruttamento, cominceranno i lavori di ampliamento della strada, gli alberi saranno abbattuti, saranno danneggiati i boschi tropicali. Inoltre l’arrivo dell’azienda petrolifera è una minaccia materiale e spirituale per i popoli kichwa, shuar, ashuar, waorani e sapara.
Intorno al fiume
“All’inizio ho passato tre giorni e tre notti con la febbre alta. Ho preso delle medicine per proteggere i polmoni”, racconta Aranda. La gente le ha chiesto di allontanarsi. Ma se lei si fosse ammalata, chi li avrebbe aiutati?
“Lo stato è nelle città, ma non nella foresta”, dice. Per questo l’attivista va spesso a Puyo, capoluogo della provincia di Pastaza, e a volte a Quito, la capitale del paese. Vuole raccontare al mondo cosa succede nella foresta.
“Non posso più vedere l’inquinamento e la distruzione dei nostri fiumi, mi fa stare male”, dice. Per uscire dalla comunità, Aranda ha due possibilità: una è prendere un aereo da Piwiri fino all’aeroporto di Río Amazonas, a Shell (un biglietto aereo costa 380 dollari, quasi l’equivalente del salario minimo mensile in Ecuador); l’altra è chiedere a una persona della sua comunità di accompagnarla con la canoa dell’associazione. Sono quattro ore di viaggio lungo il fiume Villano fino a Curaray. Da lì Aranda deve prendere un autobus che in tre ore raggiunge la città di Shell, a venti minuti da Puyo.
Aranda lavora nella giunta di Moretecocha come segretaria ma si guadagna da vivere facendo la contabile, grazie agli studi svolti nel 2012 all’Universidad regional autónoma de los Andes a Puyo. Il suo lavoro di leader sociale non è retribuito.
Piwiri non ha un centro sanitario pubblico permanente. Quando c’è un’emergenza, gli abitanti chiamano via radio il medico dell’ambulatorio di Curaray. Visto che si oppone allo sfruttamento petrolifero, il villaggio è tagliato fuori dalle comunicazioni, perché l’antenna che lo collega a Curaray appartiene alla compagnia. “Dicono che l’antenna è rotta ma non è vero, perché negli altri villaggi il segnale funziona”, spiega Aranda.
Molte donne, come Aranda, sono state segnalate dalla loro stessa comunità, che disapprova il loro impegno in difesa dell’ambiente
La salute della foresta è strettamente legata a quella dei suoi abitanti: chi vive nel bacino del fiume Villano mangia pesci inquinati dal pozzo petrolifero, anche le coltivazioni sono danneggiate. “La papaya ormai è quasi estinta e la yucca ha i funghi. Non possiamo chiamarlo sviluppo, il sumak kawsay (“buon vivere”, in kichwa) è avere acque pulite e una foresta sana, non soldi”, afferma l’attivista. L’ultimo studio sull’impatto ambientale dell’attività nel Blocco 10 risale al 1989. Già allora il documento, realizzato da una commissione di valutazione composta da delegati statali e dei popoli nativi, denunciava il degrado della vegetazione causato dal disboscamento, la presenza di rifiuti tossici scaricati nel terreno e nell’acqua, problemi per la caccia e la pesca, e malattie dello stomaco e della pelle. Come spiega Carlos Mazabanda, coordinatore per l’Ecuador di Amazon watch, un’ong che sostiene le comunità nel sudest del paese, “lo studio riguarda solo l’attività di esplorazione”.
“Noi viviamo del fiume, la nostra vita ruota intorno al fiume, lungo il fiume sorgono i nostri campi”, dice Aranda. Le infezioni, spiega, sono costanti soprattutto tra le donne. Ci sono stati anche casi di tumore, perché bere l’acqua del fiume o farsi il bagno è pericoloso. Nel 2017 l’ong Acción ecológica, che cerca di consolidare la posizione dei leader nel sudest dell’Amazzonia, ha accompagnato a Piwiri un gruppo sanitario del Centro di specializzazione dermatologico. I medici hanno riscontrato che l’80 per cento della popolazione aveva problemi alla pelle. Secondo i racconti degli abitanti della comunità, quando piove i residui dell’impianto di trattamento dell’azienda petrolifera tracimano nel fiume Lliquino, che a sua volta sfocia negli affluenti Lipuno e Villano, da cui la comunità di Aranda prende l’acqua per vivere.
Un’inchiesta del difensore civico dell’Ecuador sta indagando su queste accuse. La sua rappresentante nella provincia, Yajaira Curipallo, spiega che le denunce non si limitano all’ampliamento del Blocco 10, all’inquinamento, alla violazione dei diritti della natura e alla mancanza di una consultazione preventiva e informata. Riguardano anche i tentativi della compagnia petrolifera di dividere i popoli indigeni pagando ad alcuni dei servizi, così da influire sui criteri di protezione ambientale.
Dipendenza
In Ecuador ci sono quattordici popoli indigeni, che vivono in comunione con il territorio. Quello di Aranda e altre undici popolazioni native vivono sui più di dodici milioni di ettari che formano l’Amazzonia ecuadoriana e che lo stato ha diviso nel catasto petrolifero (dove si stabilisce quali terre possono essere vendute, esplorate e sfruttate). Secondo i dati di Acción ecológica, su 71 blocchi esistenti nel paese, 63 sono in Amazzonia, e 32 di questi sono operativi. La situazione ha spinto le comunità a chiedere la protezione del loro territorio, come i nativi waorani che nell’aprile del 2019 si sono rivolti alla corte di giustizia di Pastaza perché lo stato non li aveva consultati prima di concedere le concessioni di sfruttamento.
Come racconta Andrés Tapia, responsabile per la comunicazione della confederazione delle nazionalità indigene dell’Amazzonia ecuadoriana (Confeniae), Rosa Aranda fa parte di una rete di leader locali e attivisti per l’ambiente che funzionano “come un corpo unico per impedire l’ampliamento delle attività di estrazione nell’Amazzonia. Ci preoccupa che le compagnie petrolifere abbiano continuato a lavorare durante la pandemia e non abbiano rispettato le misure di sicurezza. E anche che il governo voglia sfruttarle per sanare l’economia quando la crisi sanitaria sarà passata”, spiega. Tapia aggiunge che questa situazione colpisce ancora una volta i diritti delle comunità locali e dei loro rappresentanti, che sono stati criminalizzati con processi per presunti reati di terrorismo, sabotaggio, attacco e resistenza. Invece si limitavano a difendere la natura.
Secondo Rosa Aranda, i problemi che ci sono nel suo territorio dipendono dall’attività di estrazione del greggio: “In trent’anni l’unica cosa che hanno fatto le compagnie petrolifere è renderci dipendenti. In ogni senso. Oggi alcune persone pensano addirittura che, senza di loro, non ci sarà futuro”.
Organizzazioni come Acción ecológica assicurano che lavorare con le comunità native per la difesa della foresta è una vera e propria sfida. Secondo Felipe Bonilla, consulente dell’ong, in questi anni la compagnia petrolifera Agip Oil ha svolto il ruolo dello stato, incidendo sulle decisioni che riguardavano l’istruzione e la salute degli abitanti della zona. Era quasi un ricatto, perché “offrivano un dottore, dei medicinali o la merenda nelle scuole in cambio della possibilità di estrarre il petrolio e inquinare la terra”. Per questo, spiega Bonilla, alcune persone difendono la compagnia petrolifera. Gli attivisti come Rosa Aranda chiedono allo stato di assumersi la responsabilità di liberare le comunità locali da questa dipendenza.
◆ 1980 Nasce a Piwiri, in Ecuador.
◆ 1988 Nella regione in cui vive arrivano le prime aziende petrolifere.
◆ 2012 Studia contabilità all’università di Puyo, nella provincia di Pastaza.
◆ 2016 Comincia a impegnarsi per difendere la sua comunità dallo sfruttamento petrolifero.
◆ 2020 Si ammala di covid-19.
Sapere tradizionale
Aranda sa che nella foresta c’è bisogno di mangiare e anche di guadagnare, ma la sua proposta è di farlo in modo sostenibile. “Possiamo creare alleanze e immaginare uno sviluppo che non distrugga la natura”, dice. Per Mazabanda, di Amazon watch, senza un sostegno economico, sociale e culturale sarà difficile proteggere i boschi tropicali. In futuro la situazione potrebbe peggiorare, perché le popolazioni native sono esposte a più minacce: i disastri naturali provocati dal cambiamento climatico (come la crisi umanitaria all’inizio del 2020 per le inondazioni causate dalle forti piogge), le attività delle aziende petrolifere e ora anche il covid-19.
Nonostante tutto, Aranda non perde la speranza. Ha un obiettivo: che nel giro di due anni la sua comunità diventi più forte e impedisca alla compagnia petrolifera di aprire altri pozzi. “Sono pronta a fare del mio meglio, perché sono indigena e conosco la triste realtà del mio popolo. Se posso sostenere la mia comunità chiedendo allo stato che i nostri diritti siano rispettati, lo farò finché vivo”, dice con orgoglio. All’inizio del 2020 la compagnia petrolifera aveva pianificato uno studio sull’impatto ambientale del pozzo Landayacu, ma il villaggio di Piwiri lo ha bloccato spiegando che non c’era stata una consultazione preventiva con gli abitanti locali.
“Come ti stai curando?”, chiedo ad Aranda. Mi spiega che entrambe le medicine sono importanti: quella occidentale, per limitare le conseguenze del covid-19, e la medicina locale per evitare di avere troppi strascichi.
Secondo i dati della Confeniae sul nuovo coronavirus, fino al 13 settembre 2020 nella comunità kichwa della provincia di Pastaza erano stati registrati 399 casi di contagio e cinque vittime. “Chiamo per sapere come vanno le cose e loro mi rispondono da un telefono satellitare, una radio ad alta frequenza che funziona con un pannello solare. Mi raccontano che la mascherina gli fa venire il mal di testa e che devono viziare i bambini per convincerli a prendere i rimedi naturali, perché le piante sono amare”, dice Aranda. Le spiegano che non si possono isolare, perché se qualcuno si ammala le cure ricadono su tutta la comunità. È meglio restare insieme, altrimenti “morirebbero di solitudine”.
I saperi tradizionali sono stati la salvezza della comunità. Gli anziani stanno insegnando ai più giovani come “raccogliere, preparare e distribuire i rimedi naturali per la malattia. Li mandano anche a me”, racconta Aranda. Cerca di vedere il lato positivo della situazione: “Questo virus ha fatto capire alle comunità che proteggere la foresta è utile e che la foresta va valorizzata. Qui si trovano le piante medicinali e si svolge la nostra vita come comunità”.
“Penso che me la caverò”, mi dice alla fine della telefonata. Mi manda via WhatsApp una foto che la ritrae in ginocchio in una casa di legno con una pentola piena di piante che ha raccolto con il figlio nei dintorni di Shell. Vuole che anche lui impari e aiuti il padre a fare le inalazioni di vapore. “A volte mi fa male la schiena, ma spero di rimettermi presto”, dice Aranda. “Quando tornerò a Piwiri vorrei risalire il fiume Conambo, come quand’ero bambina”.
Puntare sull’istruzione
Nel 2012 le donne guidarono le proteste in Amazzonia e diedero visibilità a questioni prima trascurate dagli altri leader e attivisti locali. Denunciavano la violenza sessuale, la prostituzione, il cambiamento del ruolo tradizionale degli uomini, l’alcolismo, la violenza domestica e la corruzione. Così si è consolidata una rete di donne attiviste che difendono la natura. Molte, come Aranda, hanno ricevuto delle minacce e sono state segnalate dalla loro stessa comunità, che disapprovava il loro impegno in difesa dell’ambiente, accusandole di ricevere soldi dagli ambientalisti.
“È una situazione orribile. Per fortuna parlare alla comunità nella nostra lingua materna aiuta. Ma quando diciamo che dobbiamo impedire l’accesso dell’industria petrolifera nei nostri territori alcune persone si sentono attaccate. È un lavoro costante, educare e cambiare l’idea che dipendiamo dai soldi”, spiega Aranda.
Mazabanda, di Amazon watch, sottolinea che “molte donne hanno avuto il coraggio di denunciare i danni causati dall’industria petrolifera. Hanno indicato la strada ad altre donne, per unirsi alla resistenza e bloccare l’attività estrattiva nell’Amazzonia ecuadoriana. Rosa Aranda ha lavorato molto per raggiungere quest’obiettivo”.
Secondo l’attivista, per difendere l’ambiente ci si deve liberare della convinzione che per vivere bisogna distruggere la natura: “Per questo chiediamo al governo di puntare di più sull’istruzione, perché se ci informiamo e studiamo non possono manipolarci. Solo così la gente potrà capire che ci sono modi diversi di vivere”, dice.
Aranda ha portato i suoi tre figli nella città di Shell per fargli finire le scuole superiori. Nella sua comunità le scuole non ci sono. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati