La videocamera del cellulare di Mahmoud riprende le strade fiancheggiate da edifici razionalisti italiani risalenti al periodo tra le due guerre. Sembra quasi che stia guidando per le strade di Roma. Ma quando dietro l’angolo appare una moschea, è chiaro che questa non è Roma. È Tripoli. Mahmoud, studente di ingegneria libico, è uno dei protagonisti del documentario My home, in Libya (2018) di Martina Melilli. Non vediamo mai il viso di Mahmoud perché nel documentario Melilli comunica con lui via WhatsApp.
Gli altri protagonisti del documentario sono i nonni di Melilli. Nati negli anni trenta, quando la Libia era una colonia italiana, vissero a Tripoli fino a quando non furono costretti a lasciare il paese nel 1969, dopo il colpo di stato di Muammar Gheddafi. Il padre di Melilli è nato a Tripoli.
Nella casa dei suoi nonni vicino a Padova, in Italia, Melilli individua una mappa dei luoghi del loro passato nel quartiere italiano di Tripoli, costruito in epoca fascista. Poi chiede a Mahmoud di riprendere questi luoghi come appaiono oggi. Così ci porta in un paese che dal 2011 è devastato dal conflitto e dalla violenza.
Una di loro
Una delle ragioni che ha spinto Melilli a lavorare a My home, in Libya è stata la necessità di capire la sua identità e definire un più esteso senso di appartenenza. Un bisogno molto più profondo rispetto al suo sentirsi italiana o europea.
Tutto è cominciato con Tripolitalians (2010), un progetto multimediale composto a partire da un archivio di racconti e documenti provenienti dall’ex comunità italiana che visse a Tripoli dagli anni trenta agli anni sessanta. A quel progetto sono seguiti due cortometraggi e alla fine il documentario My home, in Libya.
Secondo i ricordi dei nonni di Melilli, Tripoli era una città bellissima e internazionale, dove arabi e italiani vivevano insieme in armonia. La colonizzazione italiana della Libia era cominciata nel 1911 ed era proseguita con una campagna violenta contro le forze locali di resistenza per tutti gli anni venti e i primi anni trenta. Questi conflitti videro i primi campi di concentramento, i primi bombardamenti aerei e il primo uso delle armi chimiche in Nordafrica. “Mio nonno nacque in Libia nel 1936, quando di tutto questo non si parlava più”, spiega Melilli. Centrale nel film è la storia dell’esperienza coloniale italiana in Libia raccontata dai nonni di Melilli. Anche se studiosi di entrambi i paesi, come lo storico Angelo Del Boca e il giurista Anwar Fekini (nipote del combattente della resistenza Mohamed Fekini), hanno condotto ricerche su quel periodo, è un’epoca ancora non del tutto metabolizzata, né dagli italiani né dai libici.
Queste lacune nella comprensione storica sono al centro della ricerca del giornalista e regista libico Khalifa Abo Khraisse. Secondo lui, la mancanza di una valida storiografia locale è dovuta anche al fatto che la maggior parte della storia libica è orale. Inoltre il sistema scolastico ha seguito le linee guida imposte da Gheddafi, che volevano enfatizzare la lotta contro il colonialismo occidentale. Infine i testimoni oculari della storia della Libia prima del 1945 stanno morendo e, senza di loro, quello che è successo in quel periodo verrà rapidamente dimenticato.
Abo Khraisse è convinto che, rispetto all’immagine di una Libia unicamente teatro di violenza e guerra, si dovrebbe cercare una narrazione diversa, “fondata sull’esperienza diretta per comprendere che gli altri vivono in società come la nostra e per riconoscerli nella loro umanità”.
Abo Khraisse ha partecipato alla scrittura dell’opera teatrale Libya. Back home, un progetto nato dalla ricerca personale dell’attrice italiana Miriam Selima Fieno sulle sue origini libiche e trasformato in uno spettacolo dalla compagnia teatrale La Ballata dei Lenna.
Presentata al RomaEuropa Festival nell’autunno del 2019, quest’opera multimediale si presenta come un commento sulla Libia di oggi e quella del passato, in equilibrio tra ricordi intimi e l’incontro con tre personaggi che vivono a Tripoli: Salem, un cugino libico di Miriam; Haidar, un professore iracheno che insegna inglese; e lo stesso Abo Khraisse. La ricerca di Fieno è simile a quella di Melilli. Anche lei ha ricreato una mappa su cui ha collocato i luoghi descritti dal nonno, che fu mandato in Libia all’epoca di Mussolini e sposò una donna libica. Ad Abo Khraisse l’idea è piaciuta. La loro ricca collaborazione ha permesso di confrontare l’attuale situazione della Libia con il suo passato e mettere in evidenza i rapporti tra Libia e Italia.
Crimini coloniali
Un altro artista che ha affrontato il problema del colonialismo italiano in Libia è Leone Contini, 43 anni di Firenze, con Bel suol d’amore. The scattered colonial body (2017), una mostra multimediale in cui l’arte incontra l’antropologia.
Bel suol d’amore si concentra soprattutto sulle collezioni e gli archivi museali di Roma e sui ricordi della nonna dell’artista. “I miei bisnonni arrivarono a Tripoli nel 1931, nella fase più violenta dell’insurrezione in Cirenaica”, racconta Contini. Sua nonna, nata nel 1914, assistette agli eventi successivi alla cosiddetta “pacificazione” compiuta nel 1931-1932 da Rodolfo Graziani, l’ufficiale militare più alto in grado in Libia soprannominato il “macellaio del Fezzan”. La nonna di Contini detestava Graziani: “Era donna e proveniva da una famiglia socialista. Aveva una sensibilità diversa rispetto a molti altri italiani con cui ho parlato nel corso delle mie ricerche”.
Lo scopo principale della ricerca di Contini era provare a far luce su questo periodo oscuro della storia italiana. “Molti ritengono che il colonialismo sia stato solo una conseguenza del fascismo”, sottolinea l’artista. “Non è così, perché sappiamo che il colonialismo italiano è cominciato prima e in qualche modo gli è sopravvissuto”.
Cercando negli archivi museali Contini si è ritrovato tra le mani materiali davvero inquietanti, come le maschere facciali di libici create da un antropologo fascista. Si è chiesto se quella fosse una modalità di esposizione rispettosa e sensibile: “Non mi sento autorizzato a parlare di colonialismo. Non volevo essere un ‘bianco’ che parla dell’altro”, dichiara. “L’unica cosa che potevo fare era svelare il male fatto e mostrare quanto faccia ancora parte di noi. Non mi sento autorizzato a toccare alcuni materiali. Solo un artista libico potrebbe farlo”.
Ponendo l’una accanto all’altro una foto di sua nonna e un busto di Graziani (“Lei mi avrebbe ucciso per questo!”), Contini ha dato vita a un cortocircuito semantico ed emotivo. Collocando la dimensione intima accanto alle atrocità pubbliche, ha permesso agli spettatori di accedere a due racconti paralleli e di trarre da soli le conclusioni.
“Aspiravo a una catarsi, ma mi sono imbattuto in questioni ancora più irrisolte. La cultura italiana nel suo complesso deve ancora scavare parecchio prima di potersi permettere di voltare pagina”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1341 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati