Le voci secondo cui la Turchia sarebbe uscita dalla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne sono state confermate la mattina del 20 marzo con la pubblicazione di un decreto presidenziale. Nessuno invece si aspettava la notizia pubblicata in prima pagina dal quotidiano filogovernativo Yeni Şafak, secondo cui il presidente della banca centrale Naci Ağbal sarebbe stato sollevato dal suo incarico appena quattro mesi dopo la sua nomina. La decisione è arrivata dopo che lo stesso quotidiano aveva attaccato Ağbal per aver alzato i tassi d’interesse dal 17 al 19 per cento.

Se si considera anche la causa avviata il 17 marzo presso la corte costituzionale per chiedere lo scioglimento del Partito democratico dei popoli (Hdp) per i suoi presunti legami con il terrorismo curdo, il quadro complessivo non dimostra solo la fine del piano di riforme promesso dal governo. Queste decisioni, annunciate pochi giorni prima del congresso del Partito giustizia e sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan, fanno riflettere sul contesto di repressione in cui potrebbero svolgersi le elezioni del 2023, ammesso e non concesso che si svolgano davvero.

Al primo sguardo, il quadro è questo: la causa contro l’Hdp è stata lanciata perché lo ha voluto Devlet Bahçeli, leader del partito ultranazionalista Mhp e alleato di governo di Erdoğan. La convenzione di Istanbul è stata cancellata perché lo hanno voluto i circoli vicini al partito conservatore islamico Saadet e al quotidiano Akit, portavoce delle congregazioni islamiche. A capo della banca centrale è stato nominato un columnist di Yeni Şafak perché lo hanno voluto gli interessi economici di cui il quotidiano è portavoce.

Nel 2011 Erdoğan, allora primo ministro, era stato il primo firmatario della convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza sulle donne. Ora la Turchia è diventata il primo paese a uscirne.

La proposta di lasciare la convenzione era stata avanzata nel 2020, ma era stata respinta anche grazie alla presa di posizione della figlia di Erdoğan, Sümeyye Erdoğan Bayraktar, leader dell’associazione delle donne musulmane Kadem. La questione però è tornata all’ordine del giorno dopo un incontro tra Erdoğan e Oğuzhan Asiltürk, uno dei fondatori del movimento islamico Millî görüş da cui è nato l’Akp. Si è unito al dibattito anche Mehmet Boyunkalın, l’imam di Santa Sofia, il monumento riaperto al culto islamico nel 2020, affermando che secondo l’islam è giusto che siano gli uomini a guidare la famiglia.

L’avvocata Kezban Hatemi si è detta preoccupata che il prossimo bersaglio sia il codice civile, che equipara le donne agli uomini. In un paese in cui i femminicidi sono in aumento, l’uscita dalla convenzione potrebbe provocare un’impennata della violenza contro le donne. Non ci sarebbe da stupirsi se il prossimo passo fosse l’abrogazione della legge 6284 sulla prevenzione delle violenze familiari.

Da sapere
Il crollo della lira
Tasso di cambio tra dollaro e lira turca (Fonte: Bloomberg)

Con il senno di poi avremmo dovuto insospettirci quando Erdoğan ha ricominciato a lodare i successi del precedente ministro delle finanze, Berat Albayrak, sostenendo che era stato preso di mira solo perché è suo genero. Ma nessuno immaginava che Naci Ağbal, uno dei più fidati burocrati conservatori, sarebbe stato rimosso con un annuncio su un giornale. Come la retorica di Erdoğan sulle riforme economiche, anche l’apparente indipendenza della banca centrale è durata solo quattro mesi. Quale sarà il prossimo passo? Basta unire i puntini. La causa contro l’Hdp e l’arresto del suo deputato Ömer Faruk Gergerlioğlu rispondono a esplicite richieste di Bahçeli. Non è un caso che siano state soddisfatte proprio durante il congresso dell’Mhp, in cui il leader nazionalista ha rinnovato il suo sostegno a Erdoğan per le elezioni del 2023.

Ma c’è dell’altro. Poche ore prima che il presidente annunciasse il ritiro dalla convenzione di Istanbul e il cambio ai vertici della banca centrale, la proprietà del parco Gezi in piazza Taksim, sede delle proteste del 2013 e luogo simbolo delle contestazioni, è passata dal comune di Istanbul a una fondazione vicina al governo.

Erdoğan sta facendo marcia indietro su tutto ciò che lo zoccolo duro del suo elettorato considera un compromesso. Il punto di svolta è stata la disfatta alle elezioni amministrative del 2019, in cui le principali città del paese sono passate all’opposizione.

Il presidente sembra disposto a tutto pur di evitare un’altra sconfitta. Le sue azioni sono una chiara dimostrazione di forza, un modo per affermare che non vuole accontentarsi dei poteri presidenziali ottenuti nel 2017 grazie al sostegno dell’Mhp e che è pronto a ignorare le accuse di “colpo di stato civile”.

Due scenari

Si possono immaginare due scenari per il 2023. Nel primo lo svolgimento di libere elezioni potrebbe essere messo in dubbio a causa di una crisi economica sempre più profonda e dell’ulteriore perdita di consenso elettorale dell’Akp, dovuto all’allontanamento dei curdi e delle donne che costituivano buona parte del suo elettorato. Nel secondo scenario Erdoğan potrebbe cercare di vincere le elezioni stampando moneta per creare una ricchezza artificiale, ignorando l’obiettivo della banca centrale di limitare l’inflazione. In questo caso il presidente dovrà fare affidamento sull’elettorato islamico, contento per l’uscita dalla convenzione di Istanbul, e su quello nazionalista, contento per la messa al bando dell’Hdp.

Comunque la si guardi, è stata una settimana di passi indietro dal punto di vista del pluralismo democratico, dello stato di diritto, dei diritti delle donne, della laicità e della politica economica. Cosa ci aspetta ancora, solo Erdoğan lo sa. ◆ ga

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati