Nessuno può dare cifre precise. Nessun partito o leader politico lo chiede esplicitamente. Ma chiunque abbia partecipato alle proteste contro il governo o abbia passato un po’ di tempo sui social media in ebraico nelle ultime settimane sa che è vero: rifiutarsi di prestare servizio militare in Israele è ormai considerato legittimo non solo negli ambienti della sinistra radicale.
Prima della guerra i discorsi sull’obiezione – o, più precisamente, sul “rifiuto di prestare servizio volontario” come riservisti – erano diventati un elemento rilevante delle proteste contro la riforma giudiziaria del governo israeliano. All’apice di quelle proteste, nel luglio 2023, più di mille tra piloti e altro personale dell’aeronautica avevano dichiarato che avrebbero smesso di presentarsi in servizio se la legge non fosse stata bloccata, spingendo alcuni alti funzionari militari e il capo del servizio segreto interno Shin bet ad avvertire che la riforma della giustizia stava mettendo in pericolo la sicurezza nazionale.
La destra israeliana continua a sostenere ancora oggi che le minacce di obiezione avrebbero non solo incoraggiato Hamas ad attaccare Israele, ma anche indebolito l’esercito. In realtà, tutti quei propositi sono svaniti nel nulla dopo il 7 ottobre 2023, quando la stragrande maggioranza dei manifestanti si è presentata spontaneamente per arruolarsi. Per diciotto mesi la maggior parte della popolazione ebraica di Israele si è mobilitata in modo compatto a sostegno dell’attacco nella Striscia di Gaza. Ma pian piano sono apparse alcune crepe, che sono aumentate dopo il 18 marzo, quando il governo ha deciso di affossare il cessate il fuoco.
L’ondata più grande
Nelle ultime settimane i mezzi di informazione hanno riferito di un significativo declino nel numero di soldati che si presentano per il servizio da riservisti. Anche se le cifre esatte sono un segreto gelosamente custodito, alla metà di marzo l’esercito ha informato il ministro della difesa Israel Katz che il tasso di partecipazione era dell’80 per cento, rispetto a circa il 120 per cento subito dopo il 7 ottobre. Secondo l’emittente nazionale israeliana Kan, il dato sarebbe sovrastimato e in realtà più vicino al 60 per cento. Altre notizie parlano del 50 per cento o meno e riferiscono che alcune unità di riservisti stanno cercando di reclutare soldati attraverso i social media. “L’obiezione si manifesta a ondate, e questa è la più grande dopo la prima guerra del Libano del 1982”, afferma Ishai Menuchin, uno dei leader del movimento di obiettori Yesh gvul (C’è un limite), fondato durante quel conflitto.
Come l’arruolamento nelle forze regolari a diciotto anni, per gli israeliani fino a quarant’anni d’età è obbligatorio prestare servizio da riservisti quando si è convocati (anche se ci sono differenze a seconda del grado e dell’unità). In tempo di guerra le forze armate dipendono molto da queste persone.
All’indomani del 7 ottobre 2023 l’esercito sosteneva di aver reclutato circa 295mila riservisti, che si aggiungevano ai circa centomila soldati in servizio regolare. Se le notizie sulla mobilitazione del 50-60 per cento fossero accurate, vorrebbe dire che più di centomila persone non si sono presentate per il servizio da riservisti. “È un numero enorme”, commenta Menuchin. “Significa che il governo avrà problemi a continuare la guerra”.
“Il 7 ottobre inizialmente ha fatto dire a tutti ‘insieme vinceremo’, uno stato d’animo che però si è indebolito”, afferma Tom Mehager, un attivista che ha rifiutato di prestare servizio durante la seconda intifada e oggi gestisce una pagina sui social media dove pubblica video in cui gli obiettori spiegano la loro decisione. “Per attaccare Gaza, bastano tre aerei, ma la renitenza traccia comunque delle linee rosse. Costringe il sistema a rendersi conto dei limiti del suo potere”.
La maggior parte delle persone che rifiutano gli ordini di reclutamento sembra rientrare nella categoria degli “obiettori grigi”, che non si oppongono per principio alla guerra ma sono demoralizzate, stanche o non ne possono più del conflitto. Oltre a queste c’è una minoranza di riservisti, piccola ma in aumento, che rifiuta l’arruolamento per motivi etici.
◆ Una delegazione di Hamas è andata al Cairo il 22 aprile per discutere “nuove idee” su una tregua nella Striscia di Gaza. Qualche giorno prima, il 17 aprile, Hamas aveva respinto una proposta israeliana, chiedendo un accordo completo, come previsto inizialmente, invece di uno parziale, come vuole ora Israele. Il gruppo islamista si è detto pronto a liberare tutti gli ostaggi israeliani ancora prigionieri a Gaza in cambio della fine della guerra, del ritiro delle truppe israeliane dal territorio palestinese e dell’inizio della ricostruzione. Israele invece vuole la liberazione degli ostaggi e il disarmo di Hamas e degli altri gruppi armati palestinesi. I negoziati sono mediati da Egitto, Qatar e Stati Uniti.
◆Il 22 aprile la difesa civile palestinese ha annunciato che i bombardamenti israeliani in varie zone della Striscia di Gaza quella mattina hanno provocato 25 morti, portando a 1.864 il numero delle vittime dal 18 marzo, quando Israele ha rotto la tregua riprendendo l’offensiva nel territorio palestinese.
◆Il 20 aprile l’esercito israeliano ha pubblicato le conclusioni di un’inchiesta militare interna che ha rivelato “diverse negligenze professionali”, “disobbedienze” e “malintesi” tra i soldati in occasione della sparatoria del 23 marzo a Rafah nella quale sono morti 15 soccorritori e operatori umanitari: otto paramedici della Mezzaluna rossa, sei persone della difesa civile e un dipendente dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Il 21 aprile la difesa civile ha respinto le conclusione dell’inchiesta israeliana, accusando l’esercito di aver compiuto “esecuzioni sommarie”. Secondo la Mezzaluna rossa il rapporto è “pieno di bugie”.
◆Il 16 aprile l’esercito israeliano ha ucciso Fatima Hassouna, una fotogiornalista di 25 anni con un ampio seguito online. Il bombardamento ha colpito la sua casa nel nord di Gaza, uccidendo altri dieci familiari, compresa la sorella incinta. Hassouna si sarebbe sposata pochi giorni dopo. Afp, The Guardian
Secondo Menuchin, Yesh gvul è entrata in contatto con più di 150 obiettori di coscienza dall’ottobre del 2023, mentre New profile, un’altra organizzazione che offre supporto agli obiettori, si è occupata di centinaia di casi. Ma mentre gli adolescenti che rifiutano la leva obbligatoria per motivi di principio vanno incontro a condanne di mesi di carcere, Menuchin è al corrente solo di un caso di un riservista punito per il suo recente rifiuto e condannato a due settimane di libertà condizionata. “Hanno paura di mettere in carcere gli obiettori, perché farlo significherebbe seppellire il modello dell’‘esercito del popolo’”, spiega. “Il governo ne è consapevole e per questo non tira troppo la corda; si accontenta del congedo dall’esercito di qualche riservista, come se questo risolvesse il problema”.
Perciò Menuchin ritiene difficile stimare la reale portata del fenomeno: “Durante la guerra del Libano calcolavamo che per ogni obiettore di coscienza finito in carcere ce n’erano almeno altri otto o dieci. Quindi se 150 o 160 persone hanno dichiarato che non presteranno servizio nell’esercito per obiezione di coscienza, è ragionevole presumere che ce ne siano almeno 1.500. E questa è solo la punta dell’iceberg”, considerato il numero molto più alto di obiettori non di coscienza.
Una storia incompleta
Yuval Green si è rifiutato di tornare in servizio a Gaza dopo aver disobbedito all’ordine di incendiare una casa palestinese. Oggi guida un movimento contro la guerra chiamato “Soldati per gli ostaggi” e sotto la sua dichiarazione di obiezione ha raccolto le firme di 220 riservisti. Secondo Green l’obiezione di coscienza non racconta la storia completa.
“Ci sono molte persone che non necessariamente hanno a cuore la sorte dei palestinesi, ma che non si sentono più a loro agio con gli obiettivi della guerra”, spiega. “Io la chiamo ‘obiezione di coscienza grigia’. Non ho modo di sapere quante sono le persone coinvolte, ma sono sicuro che sono molte. In passato alcuni miei conoscenti erano arrabbiati perché sostenevo l’obiezione. Ora sento che sono più comprensivi. C’è più interesse nei nostri confronti. I mezzi d’informazione parlano di noi; ci invitano in tv. Ogni giorno che passa vedo dichiarazioni di obiezione”.
◆ Il 10 aprile 2025 quasi mille riservisti e ufficiali dell’aeronautica israeliana in pensione hanno firmato una lettera chiedendo al governo di Benjamin Netanyahu di trovare un accordo con Hamas per liberare i 59 ostaggi ancora nelle mani del gruppo islamista e mettere fine alla guerra che “a questo punto serve principalmente interessi politici e personali, invece che di sicurezza”. Netanyahu ha accusato l’iniziativa di indebolire l’esercito e “rafforzare il nemico”.
L’11 aprile 250 riservisti e veterani dell’unità d’élite 8200, responsabile dello spionaggio elettronico, hanno appoggiato l’iniziativa dell’aeronautica. Il 14 aprile anche 1.525 riservisti e veterani del corpo corazzato israeliano hanno firmato una lettera promossa dal colonnello Rami Matan. Tra loro ci sono l’ex primo ministro e capo di stato maggiore Ehud Barak e l’ex capo dell’intelligence militare Amos Malka. La lettera esprime solidarietà all’iniziativa dell’aeronautica e afferma: “Crediamo che lo stato d’Israele debba fare di tutto, anche mettere fine alla guerra, per riportare a casa gli ostaggi”. Secondo il New York Times, dalla lettera emergono “crescenti contrasti nell’esercito israeliano sulla gestione della guerra”.
Gli esempi recenti abbondano. All’inizio di aprile Haaretz ha pubblicato il commento della madre di un soldato, che affermava: “I nostri figli non combatteranno una guerra messianica scatenata per scelta”. In un altro commento pubblicato dallo stesso giornale un soldato anonimo ha dichiarato: “L’attuale guerra a Gaza serve a comprare la stabilità politica con il sangue. Io non parteciperò”.
Altre persone sono meno esplicite, ma l’effetto è simile. In un’intervista recente Ayala Procaccia, ex giudice della corte suprema, pur non arrivando a promuovere l’obiezione ha invocato la “disobbedienza civile”. Il 10 aprile circa mille riservisti dell’aeronautica hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo un accordo sugli ostaggi che metta fine alla guerra; in poco tempo si sono uniti all’appello centinaia di riservisti della marina militare e dell’unità 8200, una squadra d’élite dell’intelligence. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha risposto: “L’obiezione è obiezione, anche quando è espressa implicitamente e in un linguaggio edulcorato”.
I fattori economici
Yael Berda, sociologa dell’università ebraica di Gerusalemme e attivista di sinistra, spiega che la minor propensione a presentarsi per il servizio da riservisti deriva soprattutto da preoccupazioni economiche. Berda fa riferimento a un recente sondaggio del Servizio israeliano per il lavoro, secondo cui il 48 per cento dei riservisti ha riferito di aver registrato una perdita significativa di reddito dopo il 7 ottobre, e il 41 per cento ha raccontato di essere stato licenziato o costretto a lasciare il lavoro a causa dei lunghi periodi di servizio militare.
Anche Menuchin attribuisce un peso importante ai fattori economici, ma offre un’ulteriore spiegazione: “Gli israeliani non vogliono sentirsi degli stupidi, e ora stanno arrivando al punto in cui hanno la sensazione di essere sfruttati. Vedono altri ottenere esenzioni e sanno che, se gli succedesse qualcosa, nessuno sosterrà loro o le loro famiglie. C’è un senso di abbandono: vedono le famiglie degli ostaggi organizzare raccolte fondi per sopravvivere. La conclusione è che lo stato è assente e questo sta diventando chiaro a un numero sempre maggiore di persone”. E aggiunge: “C’è molto sconforto. La gente non sa dove porterà tutto questo. Osserviamo che c’è una corsa per ottenere passaporti stranieri – anche da prima del 7 ottobre – e una ricerca di posti ‘migliori’ verso cui emigrare. Ci si ritira sempre di più nella cura verso il proprio gruppo d’interesse. E, soprattutto, gli ostaggi non sono ancora stati riportati a casa”.
A proposito dell’obiezione di coscienza, Berda identifica varie categorie: “C’è un’obiezione che scaturisce da ‘quello che ho visto a Gaza’, ma riguarda una minoranza. Un altro gruppo ha perso fiducia nella leadership, soprattutto perché il governo non ha fatto tutto il possibile per liberare gli ostaggi. C’è un divario intollerabile tra quello che il governo diceva di fare e quello che ha fatto veramente. E questo scarto fa perdere fiducia alle gente”.
Un’altra categoria, continua Berda, è quella di chi prova “disgusto verso il discorso del sacrificio” promosso dall’estrema destra religiosa, guidata da figure come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. “È quasi una reazione alla propaganda dei coloni, secondo cui è giusto sacrificare la propria vita per qualcosa di più grande”, spiega Berda. “Le persone si ribellano all’idea che il collettivo sia più importante dell’individuo dicendo: ‘Gli obiettivi dello stato sono importanti, ma io ho la mia vita’”.
Berda osserva che le minacce di obiezione sono state una componente importante delle proteste antigovernative del 2023, ma “ora, dopo la fine del cessate il fuoco, si può dire che tutto il movimento di protesta si oppone alla prosecuzione della guerra, perché la considera la guerra di Netanyahu. Questa è senza dubbio una novità; non c’era mai stata una rottura simile, in cui la legittimità del regime è a rischio”.
Berda aggiunge: “Nel 1973 si disse che la prima ministra di allora, Golda Meir, era incompetente, che aveva fatto degli errori, ma nessuno mise in dubbio la sua lealtà. Durante la prima guerra del Libano c’erano dubbi sulla lealtà di Ariel Sharon e Menachem Begin, ma era una questione marginale. Oggi, soprattutto alla luce della vicenda Qatargate, le persone sono convinte che Netanyahu è disposto a distruggere lo stato per il suo tornaconto personale” (il riferimento è a uno scandalo che riguarda alcune persone vicine a Netanyahu, accusate di aver ricevuto denaro dal Qatar).
Tuttavia l’ondata di obiezioni e di rifiuti a presentarsi al richiamo in servizio non ha ancora messo in ginocchio l’esercito. “La gente dice: ‘Una cosa è il governo, un’altra è lo stato’”, spiega Berda. “Queste persone prestano ancora servizio perché si aggrappano allo stato e alle sue istituzioni, perché se non ci credessero più non gli resterebbe nulla”.
“L’opinione pubblica è consapevole che nel momento in cui venisse a mancare la fiducia nell’esercito, sarebbe la fine, e questo fa paura”, aggiunge. “Le persone sono spaventate all’idea di contribuire al collasso dell’esercito, perché significherebbe diventare complici. Netanyhau sta costringendo gli israeliani a fare quella che per loro è una scelta terribile. Qualunque cosa fai, sei complice di un crimine: un genocidio o lo smantellamento dello stato”. ◆ fdl
Meron Rapoport è un giornalista israeliano. Lavora per Sikha Mekomit, un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. Il sito spesso condivide gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.
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Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati