Da quando Mario Draghi ha ricevuto dal presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella l’incarico di formare un “governo di alto profilo”, le metafore spuntano come funghi. L’arrivo dell’ex presidente della Banca centrale europea nell’arena politica è paragonato all’impatto di un meteorite che cambierà il panorama dei partiti italiani. E il modo in cui si sono svolti i colloqui tra Draghi e i partiti fa prevedere sconvolgimenti politici duraturi.

A eccezione del partito postfascista Fratelli d’Italia, di Giorgia Meloni, tutti i gruppi parlamentari hanno assicurato al premier incaricato il loro appoggio. Se andrà tutto bene, gli arcinemici di ieri siederanno insieme nel governo Draghi. Ma resta da vedere se sarà confermato il sì di Beppe Grillo: lo deciderà il voto che i militanti cinquestelle esprimeranno sulla piattaforma Rousseau. Tuttavia l’esperienza di precedenti votazioni mostra che la base del movimento segue sempre le indicazioni dei suoi leader del partito, anche in caso di brusche sterzate.

Invece sulla parola data dal leader della Lega Matteo Salvini non ci dovrebbero essere dubbi. Dopo il primo incontro con Draghi, Salvini ha assicurato: “Siamo a disposizione, non poniamo veti. Ne va del futuro dei nostri figli”. Della rivoluzione copernicana della Lega, come l’hanno definita i mezzi d’informazione, Salvini non ha voluto neanche sentir parlare: “Io sono pragmatico. Se nei prossimi mesi si deciderà sulle tasse e sulla burocrazia, se si vorranno sostenere le famiglie, i commercianti e gli imprenditori, noi ci saremo”. E visto che entro la fine di aprile il governo dovrà presentare a Bruxelles il suo piano di spesa dei 209 miliardi di euro del fondo per la ripresa, Salvini dice: “Io preferisco controllare, essere nella stanza dove si decide se i soldi vengono spesi male o bene”.

Eppure subito dopo l’incarico a Draghi, Salvini non voleva partecipare al governo. Aveva indicato nelle nuove elezioni la “via maestra” per superare la crisi. Il ripensamento è dovuto alla pressione dall’ala liberista del partito nelle regioni economicamente forti del nord. Il portavoce di questa componente è il vicesegretario della Lega, Giancarlo Giorgetti, considerato il principale candidato del partito a un posto nel governo di Draghi. Probabilmente anche Luca Zaia, confermato lo scorso settembre nella carica di presidente della Regione Veneto, ha svolto il suo ruolo di voce della moderazione all’interno della Lega. Se avesse rifiutato l’ex banchiere Draghi, stimato sia dai grandi gruppi industriali sia dalle aziende familiari, il partito avrebbe smentito l’immagine che vuol dare di sé, quella di una formazione competente in materia economica.

Il lupo diventa pecora

Dopo aver incontrato Draghi, Salvini ha dichiarato di sostenere l’Unione europea, che per anni ha definito una “dittatura di banchieri e burocrati”. Recentemente ha detto che il successo della campagna vaccinale nel Regno Unito è la dimostrazione che “c’è vita anche fuori dall’Unione europea”. E ha aggiunto che gli inglesi vaccinano “sessantamila persone al giorno, mentre noi italiani dobbiamo aspettare le dosi di vaccino per colpa di Bruxelles che ha gestito male gli accordi”. Anche sul problema dell’immigrazione irregolare, Salvini si è detto disposto a cercare “una soluzione europea”, sempre a patto che Bruxelles non trovi da ridire sul fatto che l’Italia protegga i propri confini esterni, che sono al tempo stesso confini dell’Unione. La “svolta europea” di Salvini verso posizioni politiche centriste potrebbe essere vantaggiosa per la Lega sia a breve sia a medio termine. Draghi apre alla Lega la prospettiva di un ritorno al potere e la possibilità di presentarsi come una forza politica costruttiva in questa fase di emergenza nazionale.

Il leader della Lega è accusato di indossare la pelliccia da pecora europea per rientrare di soppiatto nel recinto politico dei centristi, e poi riprendere le sue vere fattezze quando la destra, come spera, nel 2023 vincerà le elezioni. Il calo di consensi nella Lega è compensato dalla crescita di Fratelli d’Italia, passato nei sondaggi dal 7 per cento del 2019 al 17 per cento di oggi. Le speranze della destra di vincere le prossime elezioni non sono irrealistiche. Il terzo partito dell’alleanza di centrodestra, Forza Italia, di Silvio Berlusconi, ora è al 7 per cento, ma ha rinunciato a un ruolo decisivo nella destra moderata. Ed è proprio su quel terreno che Salvini potrebbe andare a caccia di voti. ◆ ma

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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati