Uno dopo l’altro, gli agenti e i dirigenti della polizia di Minneapolis si sono presentati a testimoniare al processo contro Derek Chauvin, l’agente accusato di aver ucciso George Floyd a maggio del 2020. Hanno dovuto guardare il video che mostra Chauvin mentre tiene il ginocchio sul collo di Floyd per nove minuti. “Costringerlo a stendersi a pancia a terra, e tenergli il ginocchio sul suo collo così a lungo, era del tutto fuori luogo”, ha dichiarato l’agente del dipartimento con più anni di servizio. “Non è quello che si insegna all’addestramento”, ha confermato un ispettore che in passato si è occupato di formare i colleghi. “Non fa parte del nostro programma di addestramento e non rispecchia il nostro approccio etico”, ha detto il capo della polizia di Minneapolis. È la prima volta che il comportamento di un agente viene denunciato dai vertici del suo dipartimento, hanno affermato gli esperti, sottolineando che la condotta della polizia statunitense è al centro di un dibattito cruciale che potrebbe condizionare la decisione dei giurati.
L’accusa sostiene che l’imputato ha agito in un modo inaccettabile per un poliziotto, mentre la difesa vuole dimostrare che Chauvin ha “fatto esattamente ciò che è stato addestrato a fare”. Secondo gli esperti, queste posizioni a confronto in un processo seguito in tutto il paese segnano un punto di svolta sul tema della violenza della polizia. Sotto i riflettori non c’è solo il comportamento di Chauvin ma anche la volontà degli agenti di infrangere il cosiddetto “muro blu del silenzio” e la capacità del sistema giudiziario di vigilare su se stesso. “Sul banco degli imputati c’è la polizia statunitense”, dice Joseph Giacalone, sergente in pensione del dipartimento di polizia di New York. “Il caso di Derek Chauvin ha danneggiato la polizia più di qualsiasi altra vicenda”.
Parola alla difesa
Durante le loro deposizioni, i poliziotti hanno cercato di separare il comportamento di Chauvin da quello del dipartimento in cui l’accusato ha lavorato per quasi vent’anni. Medaria Arradondo, il capo della polizia di Minneapolis che ha licenziato Chauvin e gli altri tre agenti che erano con lui, ha criticato senza mezzi termini le azioni di Chauvin: una volta che Floyd “aveva smesso di opporre resistenza avrebbe dovuto fermarsi”, ha dichiarato, “e sicuramente avrebbe dovuto farlo quando Floyd era sofferente e cercava di esprimerlo”. Dopo di lui è stata chiamata a testimoniare Katie Blackwell, che in passato ha diretto il programma di addestramento della polizia di Minneapolis. Blackwell ha dichiarato di aver conosciuto Chauvin vent’anni fa e di avergli poi affidato l’incarico di supervisore nell’addestramento delle reclute. Guardando una foto di Chauvin con il collo sul ginocchio di Floyd, ha dichiarato: “Non so che genere di posizione improvvisata sia questa”.
Secondo Roger A. Fairfax Jr., professore di diritto all’università George Washington, il fatto che gli ufficiali chiamati a testimoniare abbiano espresso disapprovazione per quello che hanno visto non è sorprendente. “Hanno deciso di non difendere il comportamento di Chauvin semplicemente perché è indifendibile”.
Eric Nelson, l’avvocato di Chauvin, ha cercato di screditare le testimonianze dei poliziotti sostenendo che uno di loro non aveva visionato tutte le prove, e che gli altri hanno smesso da tempo di pattugliare le strade. Nelson ha proposto una tesi usata in altri casi simili: gli agenti “sono autorizzati a usare le forza che ritengono necessaria”. Durante il controinterrogatorio del sergente Yang, capo del programma di addestramento per l’unità di crisi del dipartimento, Nelson ha chiesto: l’uso della forza da parte della polizia può sembrare sbagliato “ma allo stesso tempo può essere perfettamente legale nonostante le apparenze, giusto?”. Yang ha risposto di sì.
Questi dibattiti evidenziano un punto centrale in questa vicenda: è raro che un agente sia processato per omicidio. Da tempo i procuratori fanno molta fatica a far condannare i poliziotti, soprattutto nei casi in cui la loro condotta ha causato dei morti e le accuse sono molto gravi. Gli avvocati della difesa, i procuratori e gli esperti attribuiscono questa difficoltà a una combinazione di fattori: la fiducia che i giurati e i giudici nutrono nelle forze di polizia, l’ampia discrezionalità che la legge concede agli agenti nell’uso della forza e il fatto che gli accusati affermano di aver semplicemente eseguito gli ordini.
◆ L’11 aprile 2021 Daunte Wright, un afroamericano di vent’anni, è stato ucciso con un colpo di pistola da Kim Potter, un’agente del dipartimento di polizia di Minneapolis, in Minnesota. Secondo le ricostruzioni, Wright era stato fermato per un’infrazione stradale e poi ha cercato di scappare quando gli agenti hanno scoperto che c’era un mandato d’arresto a suo carico. Potter sostiene di aver sparato un colpo di pistola credendo di usare il taser, un’arma non letale usata per paralizzare i sospettati. Per giorni ci sono state proteste contro la polizia e scontri tra manifestanti e gli agenti in tenuta antisommossa. Sempre a Minneapolis si sta svolgendo il processo contro Derek Chauvin, accusato di aver ucciso George Floyd a maggio del 2020. Cnn
Tuttavia, è difficile sostenere questa tesi quando altri agenti, soprattutto di alto rango, testimoniano contro gli accusati. “La testimonianza del capo della polizia è decisiva”, spiega Kobie Flowers, ex procuratore federale per i diritti civili. “Non ricordo un altro processo in una grande città in cui il capo della polizia ha testimoniano, in uniforme, contro uno dei suoi agenti. Pensate che dopo aver sentito le parole di Arradondo la giuria possa assolvere Chauvin? Ne dubito”. Flowers aggiunge che spesso “il capo della polizia si schiera dalla parte dell’agente sotto accusa. Di solito non testimonia, ma è presente in aula in uniforme, insieme ai suoi sottoposti, per mandare un messaggio chiaro alla giuria ed esprimere il pieno sostegno all’agente sotto processo. È un esempio chiaro del ‘muro blu’, che di solito porta le giurie ad assolvere”.
Il fatto che tanti poliziotti abbiano testimoniato in questo processo è dovuto alla natura specifica di questo caso, spiega Michelle Phelps, docente associata di sociologia all’università del Minnesota. “La morte di Floyd ha rovinato la reputazione del dipartimento. Gli agenti si sentono obbligati a rimediare e a difendere il dipartimento in pubblico. Probabilmente non si sarebbero comportati nello stesso modo se il caso non fosse stato così discusso e particolare”. Proprio per questo motivo, Phelps non crede che la vicenda creerà un precedente. “Non penso che in futuro il capo della polizia sarà chiamato a testimoniare in tutti i processi contro gli agenti”.
I dati su Stati Uniti, Paesi Bassi, Islanda, Inghilterra e Galles sono del 2019. Quelli su Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Norvegia e Germania del 2018. I dati sul Canada del 2017.
Il cambiamento che serve
David Carter, professore di diritto penale dell’università di Michigan state ed ex agente della polizia di Kansas City, in Missouri, la pensa diversamente. Secondo lui il processo manderà un messaggio a tutti i poliziotti. “Il dipartimento di Minneapolis vuole dimostrare alla città e alla nazione che non approva questo genere di comportamento”, spiega Carter. Le forze di polizia di tutto il paese “stanno seguendo attentamente il processo e dicono: ‘Noi non siamo così, c’è bisogno di una condanna’”. Secondo Carter, i vertici della polizia stanno intervenendo con decisione contro Chauvin proprio perché sanno quanto sia difficile condannare un agente.
“Capiscono qual è la posta in gioco”. Questo comportamento contrasta con un altro caso recente che ha coinvolto la polizia di Minneapolis. Nel 2018 un agente è stato accusato di omicidio per aver ucciso una donna che si stava avvicinando alla sua pattuglia. La donna aveva chiamato il numero per le emergenze per denunciare un abuso sessuale vicino alla sua casa. In quel processo molti agenti si sono rifiutati di collaborare ed è stato necessario costringerli a deporre. Al processo ha testimoniato anche Arradondo, per spiegare l’uso delle telecamere montate sulle divise degli agenti. Alla fine il poliziotto è stato condannato (la prima volta in un caso di questo tipo a Minneapolis) e sta scontando una pena a dodici anni e mezzo per omicidio.
Le testimonianze degli agenti al processo contro Chauvin hanno anche riacceso il dibattito sull’omertà nella polizia. Per Flowers, che nella sua carriera ha perseguito, difeso e denunciato molti agenti, si tratta di un problema diffuso. Gli esperti e gli ex funzionari di polizia ammettono che esiste un “codice”, ma sottolineano che gli sforzi per diversificare i dipartimenti, migliorare l’addestramento e rafforzare i controlli hanno cominciato a sgretolare il muro. In alcuni casi gli agenti non vogliono essere associati a colleghi che considerano pericolosi. “Davanti alla possibilità di finire in prigione non esiste il muro del silenzio”, dice Giacalone.
Secondo alcuni esperti, i processi come quello a Chauvin potrebbero avere un effetto deterrente. Una condanna sarebbe un avvertimento per gli altri poliziotti, che avranno paura di perdere il lavoro e la famiglia. Inoltre potrebbe spingere i procuratori in altre zone del paese a incriminare i poliziotti. Ma c’è chi consiglia di non trarre conclusioni generali dall’esito di un singolo processo, e sottolinea che questi casi isolati non bastano per ottenere il cambiamento strutturale che gli attivisti antirazzisti chiedono. Alcuni fanno notare che a maggio del 2020 Chauvin era ancora in servizio, nonostante i tanti reclami per il suo comportamento, ed era perfino stato scelto come supervisore nell’addestramento delle reclute, un ruolo cruciale per plasmare la condotta dei giovani agenti.
“Non venite a parlarmi di mele marce”, attacca Flowers. “È un problema culturale”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1405 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati