D ire che ogni singolo, sudato, momento alla Mostra del cinema di Venezia è stato meno che miracoloso sarebbe un eufemismo. Perfino ora che sono tornata a Londra dopo otto giorni a Venezia, trovo incredibile che il festival si sia svolto. Incredibile vedere Tilda Swinton gridare “Wakanda forever!” su un vero palco, davanti ai nostri occhi e non su Zoom. Andare avanti mangiando panini e pizza fredda per una settimana, e pensare che ci è anche piaciuto. Ritrovarsi in tanti al buio ogni giorno, a ogni occasione, trascinati dal cinema.
Quando la scorsa primavera gli organizzatori della mostra hanno dichiarato che il festival si sarebbe svolto ero piuttosto scettica. In quel momento la situazione determinata dall’epidemia di covid-19 in Europa era terribile e l’Italia era tra i paesi più colpiti. Mi chiedevo come avrebbero potuto farcela.
Più viva che mai
Con l’avanzare dell’estate è stato sempre più evidente che il festival sarebbe stato un affare quasi del tutto europeo, per le restrizioni di viaggio in vigore in Nordamerica e in alcune parti dell’Asia. “Non ci andrà nessuno”, commentavano con stizza alcuni dirigenti statunitensi durante le nostre videochiamate. “Sarà un festival morto, vedrete”.
Venezia però è tutto fuorché morta. Anzi, è più viva che mai. Quando gli invitati e gli addetti ai lavori del mondo del cinema sono arrivati al Lido – e socchiudere gli occhi per la luce del sole mentre i taxi acquatici ti sballottavano sulla laguna, dopo mesi di confinamento, era già di per sé un piacere – siamo rimasti subito colpiti dalle misure di sicurezza imposte senza andare per il sottile in tutto il perimetro del festival. Non ho mai visto niente di simile durante questa pandemia (e vorrei averlo visto, caro Boris Johnson).
Al primissimo ingresso negli spazi del festival ci hanno chiesto di indossare le mascherine, hanno filmato il nostro ingresso e ci hanno misurato la temperatura (la prima di infinite volte nell’arco della giornata). E non si poteva neanche solo pensare di abbassare la mascherina sotto il naso. Quasi tutte le persone nei locali che ospitavano il festival portavano la mascherina. Ed ecco la parte migliore: tutti lo hanno accettato di buon grado, perché era necessario principalmente per proteggere la nostra salute.
Nelle sale le mascherine erano obbligatorie, e con film lunghi e diverse proiezioni al giorno non è stato uno scherzo. Ma posso essere sincera? È stato meraviglioso. Il sistema per richiedere online i biglietti per ogni proiezione, evento e conferenza stampa ha funzionato bene e non solo potevi arrivare due minuti prima di qualsiasi evento perché avevi il posto riservato, ma i posti accanto al tuo erano vuoti. E gli intrusi che cercavano di sedersi accanto ai loro colleghi? Niente da fare, perché le poltrone erano bloccate. C’era spazio per respirare, pensare e non stare a preoccuparsi di chi tossisce, o parla, o cerca d’invadere il tuo spazio.
Il bello dell’anonimato
L’atmosfera nel complesso era tranquilla, a volte in modo un po’ inquietante. Non ci sono state feste, perciò per socializzare bisognava organizzarsi per conto proprio. Venezia ha mantenuto la sua promessa di avere un tappeto rosso all’esterno della Sala grande, anche se un enorme muro è stato eretto per impedire alla gente di affollarsi. Maya Hawke mi è passata accanto per andare a sfilare sul tappeto rosso di Mainstream, ma con la mascherina non l’ho nemmeno riconosciuta. E in un modo un po’ bizzarro questo anonimato ha funzionato, perché ci ha consentito di concentrarci su qualcosa di prezioso che negli ultimi tempi avevamo quasi dimenticato: il cinema.
◆ “La giuria presieduta dall’attrice Cate Blanchett ha assegnato il Leone d’oro a Nomadland, terzo lungometraggio di Chloé Zhao, giovane regista statunitense, nata a Pechino nel 1982”, scrive Mathieu Macheret su Le Monde. Il quotidiano francese definisce la 77a Mostra del cinema di Venezia come l’edizione “della convalescenza, della difficile ripresa dei rituali competitivi dei grandi festival cinematografici”. Zhao, che nel 2021 dirigerà il film della Marvel The Eternals è la quinta donna a vincere il Leone d’oro, dalla sua creazione a oggi, nota Julien Gester su Libération, ma non ha potuto ritirarlo e ha ringraziato i giurati con un videomessaggio registrato a Pasadena, in California. “I premi per le migliori interpretazioni”, continua Gester “sono andati a Vanessa Kirby, nel tragico mélo Pieces of a woman _di Kornél Mundruczó, e a Pierfrancesco Favino che prodiga il suo talento in _Padrenostro, una specie di telefilm iperprodotto in cui l’eccellente interprete del Traditore rappresenta l’unica attrattiva”. “Ma quest’anno la sfida più rischiosa”, conclude, “è stata mandare avanti il festival. Per gli epidemiologi e i fan degli eventi ben organizzati è stato senz’altro un successo. E forse, per una volta, questo è l’essenziale”. Il Leone d’argento è stato assegnato a Nuevo orden del messicano Michel Franco, “la rappresentazione di un brutale e sanguinoso colpo di stato contro le classi più agiate che governano il paese”, scrive Scott Roxborough su The Hollywood Reporter. In una cerimonia di premiazione che si è svolta “sotto l’ombra minacciosa della pandemia”, in cui “la maggior parte dei premiati ha ringraziato la giuria attraverso dei video”, a Kiyoshi Kurosawa è stato assegnato il premio per la miglior regia (Wife of a spy), mentre per la migliore sceneggiatura ha vinto l’indiano Chaitanya Tamhane con The disciple. Infine ad Andrej Končalovskij per _Dear comrades _è andato il Gran premio della giuria.
C’è stato un momento in cui le basi stesse del nostro settore mi sono apparse astratte e aliene. Durante il lockdown ho continuato a scrivere di cinema, ma non sperimentavo da tanto tempo l’attesa di vedere un’opera inedita, o l’entusiasmo per le interpretazioni memorabili di attori come Vanessa Kirby (Pieces of a woman, The world to come) e Alec Utgoff (Never gonna snow again), o ancora la possibilità di commentare con altre persone (attraverso le mascherine) quello a cui avevamo assistito assieme.
Gli occhi del mondo erano puntati su Venezia e continuano a esserlo ancora oggi che il festival è finito e tutti sono andati via. Sono previste indagini minuziose nel caso qualcuno dovesse ammalarsi, cosa assolutamente possibile perfino con un protocollo così rigido. Tuttavia se il settore doveva ripartire da qualche parte per tentare di riprendersi dalla scia di distruzione lasciata dal covid-19, gli organizzatori hanno fatto senza dubbio tutto ciò che era in loro potere per garantire che fosse la migliore ripartenza possibile, oltre che la più sicura. ◆ gim
Manori Ravindran è una giornalista originaria dello Sri Lanka, caporedattrice della sezione internazionale di Variety.
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Questo articolo è uscito sul numero 1376 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati