O mar bin Osama bin Mohammed bin Awad bin Laden, il quarto figlio del leader di Al Qaeda Osama bin Laden, fa partire un video su YouTube intitolato The last cowboy song. Mescola della vernice su una tavolozza e tira una boccata da una vecchia pipa da caccia tedesca. Le sue tele raffigurano uno scenario di mezzanotte nel sud degli Stati Uniti, e il profilo di cinque cowboy, con cappelli a tesa larga, è illuminato da un fuoco da campo. “Il senso è la libertà”, spiega Omar. Nell’ultimo anno questo solitario quarantenne ha cominciato a progettare per sé una vita da artista, imparando a dipingere nella sua casa sulla costa della Normandia, in Francia. “Amo la dignità dei cowboy. Quando sono depresso, guardo Gli spietati di Clint Eastwood”, dice.
Omar soffre di disturbo bipolare. Nei momenti più cupi, sente la voce di suo padre. Nei suoi selfie proietta un’immagine sicura di sé: a cavallo, con i capelli ricci che gli arrivano alle spalle e il cappello inclinato. L’ispirazione artistica, spiega, “viene dalla pace che provo quando sono a cavallo”. Omar guarda i quadri per comprendere se stesso, e fa i conti con il passato: “Quando avevo sette anni, dopo aver passato del tempo con i cavalli di mio padre nel deserto, andavo a casa e li disegnavo. L’unico momento felice era il periodo in cui proponevo disegni che poi venivano scelti e appesi alle pareti della scuola”.
È stato più o meno a quell’età che Omar è stato preso sotto l’ala protettrice di Osama bin Laden e cresciuto per diventarne il successore. Pensa ai suoi disegni in mostra nella scuola di Gedda, in Arabia Saudita. “Sfortunatamente mio padre non c’era mai per queste cose. Sapete che genere di uomo era”.
In collegamento video, le ampie spalle di Omar contrastano con la sua timidezza. È pensieroso. Accompagna le frasi con degli emoji, ricorre all’umorismo nero ed è turbato quando parla del padre.
La relazione dello stesso Osama bin Laden con la paternità era complicata. Era figlio di divorziati e “soffriva per la mancanza d’amore e attenzione di suo padre”, dice Omar. “So come si è sentito. Sono uno dei suoi venti figli, spesso ho percepito la stessa mancanza d’attenzione”. Quando Osama bin Laden aveva dieci anni, suo padre morì in un incidente aereo. Mentre era in lutto, Osama diventò un hafiz, una persona capace di memorizzare tutte le sure del Corano. Alcuni anni dopo Omar avrebbe assistito alle sue declamazioni: “Non dimenticava una parola”, racconta.
L’infanzia di Omar fu segnata dal rifiuto della modernità di suo padre e dalle crescenti minacce alla sicurezza. “Eravamo tenuti come prigionieri nelle nostre case”, dice. “Non potevamo giocare all’esterno, neanche in giardino. I miei fratelli e io passavamo ore a osservare fuori dalle finestre dell’appartamento, desiderando di unirci agli altri bambini in sella alle loro biciclette”.
Osama imponeva ai figli regole severe. E, come la maggior parte dei bambini, loro si ribellavano ogni volta che era possibile. “Papà c’impediva di bere bibite gassate americane”, racconta Omar. Ma i ragazzi adoravano la Pepsi: “Quanto ci piacevano le cose proibite!”.
Omar aveva seguito il padre, non la sua ideologia. E gli disse che non sarebbe stato il suo successore. Voleva il suo amore, non la sua guerra
La vita dura
Omar e i suoi fratelli contestavano la loro educazione, molto più arcaica rispetto a quella dei cugini, che frequentavano le migliori scuole del mondo. A Omar e ai suoi fratelli veniva insegnato che “la vita dev’essere dura. Se verrete trattati duramente, diventerete più forti”. Spesso il padre li picchiava, a volte per cose di poco conto, come un sorriso troppo pronunciato. Oggi Omar si rifiuta di parlarne.
L’unico luogo in cui abbia assaporato la libertà era la fattoria di famiglia, a sud di Gedda. Tutti i giocattoli erano vietati, e ai bambini erano affidate capre e gazzelle. Omar adorava le stalle. Il suo cavallo preferito era una giumenta araba bianca chiamata Baydah, che significa “devota”.
Ci sono due momenti che emergono dalla memoria della sua infanzia. Il primo è quando a suo padre fu offerto un cucciolo di cammello. All’arrivo dell’animale i bambini fremevano di entusiasmo, ma si resero presto conto che era troppo giovane per essere separato dalla madre. “Era così solo e piangeva in un modo così straziante che mio padre decise di portarlo in una delle fattorie di suo fratello”, racconta Omar. “Ma il piccolo cammello fu attaccato da altri cammelli. Non abbiamo mai saputo il finale di questa storia triste, ma quel cucciolo mi ha perseguitato”.
Il suo secondo ricordo è il primo e ultimo momento magico. Quando la chiamata pomeridiana alla preghiera risuonava in tutto il complesso della fattoria, Omar era elettrizzato perché poteva stare più vicino al padre. “Un giorno dimenticai d’infilarmi i sandali. La sabbia era bollente. La pianta dei miei piedi nudi mi bruciava. Cominciai a urlare dal dolore”. Immerso nel profumo muschiato dell’oud, Osama cullò il figlio per la prima e ultima volta. “Mi si seccò la bocca dallo stupore”. Per il resto del tempo era come parlare con un miraggio.
Nell’agosto del 1990 l’esercito iracheno di Saddam Hussein invase il Kuwait. “Quello è stato il momento in cui ho capito chi era mio padre: un eroe di guerra così venerato che le sue azioni non venivano messe in discussione”, racconta. Nel 1989, dopo il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, dove aveva guidato la guerriglia, Osama era stato riaccolto in Arabia Saudita come un eroe del jihad, la “guerra santa” contro gli infedeli. Insieme alla sua legione di mujahidin (combattenti del jihad), si sentiva onnipotente. “Era l’unico civile in Arabia Saudita autorizzato a guidare auto con i vetri oscurati, o a camminare per le strade di Gedda con la mitragliatrice in spalla”, dice Omar.
Osama cominciò a fare scorta di viveri, candele, lampade a gas, ricetrasmittenti portatili, radio a batteria e maschere antigas. I bambini venivano rimproverati perché giocavano con le maschere: quelli non erano giocattoli. La fattoria fu trasformata in una base militare. Osama era sempre più convinto che l’esercito iracheno avrebbe attraversato il confine con il Kuwait per invadere l’Arabia Saudita, così si avvicinò alla famiglia reale chiamando il ministro dell’interno, il principe Nayef bin Abdulaziz al Saud. Osama aveva fatto in modo che più di cento dei suoi ex mujahidin ricevessero dei visti e vivessero nella fattoria a sud di Gedda, e si offrì di far venire nel paese altri dodicimila veterani ben armati della guerra sovietico-afgana, ancora ai suoi ordini. Il 7 agosto 1990 Osama scoprì che una coalizione di forze armate sotto la guida degli Stati Uniti avrebbe difeso la terra più sacra dell’islam. Quella mattina le forze governative saudite fecero irruzione nella fattoria e arrestarono i suoi soldati. “Quell’episodio cambiò per sempre i sentimenti di mio padre”, dice Omar. Lo stesso giorno l’esercito statunitense sbarcò in Arabia Saudita prima di entrare in Kuwait e cacciare le forze irachene.
Osama cominciò a criticare apertamente la famiglia reale saudita, tenendo discorsi nelle moschee, distribuendo volantini e registrando audiocassette in cui sosteneva che Riyadh stava diventando una colonia statunitense. Decise di far migrare la sua famiglia e la sua milizia a Khartoum, in Sudan.
Omar aveva dieci anni quando la famiglia si trasferì. Il padre cominciò presto a preoccuparsi di come trasformare quel paese povero, investendo in un progetto agricolo sperimentale, le fattorie Al Damazin. Ma nonostante questo, “non potevamo comunque usare biciclette o qualsiasi altro trasporto meccanico”, dice l’artista, criticando il disprezzo di suo padre per la modernità.
Un pomeriggio, alcuni proiettili entrarono sibilando dalla finestra aperta mentre Omar stava studiando il Corano. Il governo sudanese disse in seguito alla famiglia che erano stati dei sicari pagati dal governo saudita. Il re saudita mandò a dire a Osama di aspettarsi una telefonata. Osama si rifiutò di rispondere, e il governo saudita decise di revocare la cittadinanza della famiglia e di congelare i suoi beni.
Omar aveva 14 anni all’epoca e cominciava a capire le idee politiche del padre. A Khartoum notò una crescente presenza di combattenti provenienti dall’Afghanistan e cominciò a conoscere il gruppo di suo padre, Al Qaeda, letteralmente “la base”. Nel maggio del 1996, quando l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti fecero pressione sul Sudan per espellere la famiglia Bin Laden, Osama presentò ai figli dei documenti legali che stabilivano che tre fratelli di Omar – Abdullah, Abdul Rahman e Saad – avrebbero avuto l’autorità di agire in sua vece alla sua morte. Il nome di Omar non era sulla lista. Osama disse ai suoi figli: “Domani parto. Porto con me mio figlio Omar”.
La retta via
Nella valle afgana di Spin Ghar (la montagna bianca), Osama e Omar furono accolti dal capo tribale pashtun mullah Nurallah. Il comandante dei mujahidin fece scoprire a Osama una montagna nell’area di Tora Bora, prima di annunciare che Osama era ormai un pashtun onorario. La loro nuova casa era decorata con detriti di guerra: vivevano nella celebrazione del trionfo di Bin Laden contro l’impero sovietico. Omar ricorda l’Afghanistan con affetto, nonostante i letti putridi, i bossoli vuoti e i giornali ingialliti. Parla con toni romantici del periodo trascorso con suo padre insieme ai contadini nomadi, sulle montagne. Quattro mesi dopo il suo arrivo, i fratelli di Omar entrarono in Afghanistan. Per i figli di Osama era arrivato il momento di seguire “la retta via”.
Omar, che non ricorda di aver mai visto il padre “lontano dalla sua arma, neanche quando era in visita da mia madre”, ricevette il suo kalashnikov. Fu portato nei campi di addestramento di Al Qaeda. “Le reclute erano uomini duri, per lo più giovani con la barba lunga”, dice Omar. Omar giocava con le radio del campo e ricorda bene una melodia: era l’ipnotica cantante egiziana Umm Kulthum, la “stella d’oriente”. “Il messaggio di Umm Kulthum mi fece capire che esisteva un mondo parallelo a quello fatto di odio e vendetta in cui vivevo: un mondo che prima mi era sconosciuto, dove la gente viveva per l’amore”. Un anno dopo, nel 1997, Osama chiese a Omar di razionare i viveri in famiglia. Dietro la richiesta c’era un tacito accordo: doveva cominciare ad assumere il suo ruolo nella dinastia jihadista di Al Qaeda. Ma Omar aveva seguito il padre, non la sua ideologia. Disse che non sarebbe stato il suo successore. Voleva il suo amore, non la sua guerra. “Neanche quella volta mio padre riuscì ad abbandonare l’idea che il suo successore dovessi essere io”. Per convincere il figlio, Osama lo portò al fronte della guerra civile afgana, scoppiata dopo il ritiro sovietico dal paese.
◆ 1981 Nasce a Gedda, in Arabia Saudita.
◆ 1991 Segue il padre, Osama bin Laden, in esilio a Karthoum, in Sudan.
◆ 1996 Insieme al padre si trasferisce in Afghanistan, dove viene addestrato nei campi di Al Qaeda.
◆ 2009 Pubblica il libro Growing up Bin Laden, basato su una serie di interviste fatte a lui e alla madre.
Non passò molto tempo prima che Omar e suo padre dovessero fare i conti con la violenza. Omar ricorda un episodio in particolare: “I missili mi fischiavano accanto. Credevo di vivere i miei ultimi momenti in questo mondo”.
Mentre faceva la guardia in un sentiero di montagna, Omar fu avvistato da un cecchino. I proiettili gli sfioravano le orecchie, ma lui rimase immobile. “Mi ero abituato al rumore della guerra, ma non a vederla in faccia. Sulla cima di quella montagna, giurai a me stesso che avrei passato il resto della mia vita a contestare quello che mio padre amava”.
Nell’agosto del 1998 la base in Afghanistan si riempì di un’agitazione febbrile. Gli attacchi simultanei di Al Qaeda alle ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenya avevano provocato 224 morti. Tra le vittime c’erano dodici statunitensi, tra cui due dipendenti della Cia. Erano passati otto anni da quando le truppe statunitensi erano sbarcate in Arabia Saudita. “Non riuscivo più a respirare”, dice Omar. “Guardai mio padre. In vita mia non l’avevo mai visto così felice”.
Nei mesi successivi uno dei consiglieri di Osama bin Laden, Abdul Hadi, avvertì Omar della preparazione di un’altra, e molto più grande, missione di Al Qaeda. Se Omar voleva sopravvivere, doveva andarsene. Il ragazzo elaborò un piano per fuggire con i suoi fratelli a cavallo. Ma man mano che si avvicinava il momento di partire, i ragazzi perdevano coraggio. Osama riunì i suoi figli e gli parlò di una lista di nomi sulla parete della moschea. “Questa è una lista di buoni musulmani: uomini che si offrono volontari per essere attentatori suicidi”. Omar non aggiunse il suo nome alla lista.
Fumo dalle torri
Osama cominciò a prendere le distanze da lui. Ormai non era più importante di qualsiasi altro uomo o ragazzo in tutto il paese. Alla fine del 1999 Omar ottenne il permesso di viaggiare in Siria con la madre. Il 12 ottobre del 2000 Al Qaeda attaccò la nave da guerra Uss Cole nel porto di Aden, in Yemen: morirono 17 marinai. Omar era convinto che si trattasse dell’attacco di cui Abdul Hadi lo aveva avvertito. Pochi giorni dopo ricevette un messaggio che gli chiedeva di tornare. “Decisi di fare qualcosa che mi ero ripromesso di non fare mai: tornare in Afghanistan”, racconta. Quando raggiunse il padre nel 2001, Osama non mostrò alcun interesse per lui. Abdul Hadi gli ribadì il suo avvertimento: un attentato era imminente. Prima di ripartire, a Omar non fu data la possibilità di parlare con il padre.
La mattina dell’11 settembre 2001 Omar, tornato in Arabia Saudita, guardò in televisione il fumo che si alzava dal World trade center. E poi lo schianto del secondo aereo. “Dopo aver ascoltato una registrazione con le parole di mio padre, che si attribuiva il merito degli attentati, accettai il fatto che ci fosse lui dietro a quelle azioni”, dice Omar. “Ero finalmente una persona autonoma. E dovevo convivere con questo”. Osama bin Laden si ritirò sulla montagna, a Tora Bora.
“Tutti quelli che conoscevamo ormai sono morti. Ho perso molti amici, tre fratelli, mia sorella e mio padre”, dice Omar.
Mi mostra la foto di suo fratello maggiore Saad, che soffriva di autismo. “Questa è stata scattata a Tora Bora”. Saad guarda lontano, vestito a immagine e somiglianza di Osama, con un cappello afgano e una giacca verde da campo. Impugna un kalashnikov nella mano sinistra. E, dice Omar, proprio come suo padre “lo hanno ucciso gli Stati Uniti”.
In un quadro un teschio bianco di vacca è adagiato in un paesaggio tranquillo. Un albero senza foglie si piega fino a sformarsi. Il punto di vista, dall’alto, è quello di una persona seduta sul dorso di un cavallo. Omar ammette che il cowboy del suo quadro non è lui. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati