A Tulsa, in Oklahoma, nessuno parla di ciò che avvenne in un giorno di primavera di cento anni fa. Nel tardo pomeriggio del 30 maggio 1921 Dick Rowland, un lustrascarpe nero di 19 anni, aveva bisogno di andare al bagno. A causa della segregazione razziale l’unico bagno pubblico che poteva usare era quello riservato ai neri in cima all’edificio Drexel, nel centro di Tulsa. Così Rowland prese un ascensore manovrato da Sarah Page, bianca, 17 anni.
Ci sono versioni contrastanti su cosa avvenne in quell’ascensore, ma sappiamo che al commesso di un negozio di abbigliamento del primo piano sembrò di sentire una donna gridare. Poco dopo le porte dell’ascensore si aprirono e Rowland uscì rapidamente, con l’aria confusa. Dietro di lui, Page era evidentemente scossa. Presumendo che Page fosse stata molestata sessualmente da Rowland, il commesso chiamò la polizia, innescando una reazione a catena che avrebbe devastato la comunità nera di Tulsa.
Nelle quattordici ore che seguirono, trentacinque isolati dei quartieri neri di Tulsa furono dati alle fiamme. Le violenze esplose dopo le accuse contro Rowland provocarono ottocento feriti e centinaia di morti.
Sono un nero dell’Oklahoma, dunque la storia di Tulsa è la storia della mia famiglia. Un mio parente fu assassinato durante il massacro. Per tenere viva la sua memoria, la mia famiglia paterna racconta ancora oggi ciò che accadde a Tulsa quel giorno, compreso il fatto che non riuscirono mai a trovare il corpo del nostro parente. Conosco la storia del massacro razziale di Tulsa del 1921 perché è la mia storia. Oggi sono un professore dell’Oklahoma state university e rimango sempre sconvolto dal fatto che pochi studenti abbiano anche solo sentito parlare di quegli eventi.
Fare i conti con la storia
Sarebbe naturale pensare che dal 1921 a oggi qualcuno abbia realizzato un film su quel giorno, un momento devastante e cruciale nella storia degli Stati Uniti. Anche perché i registi statunitensi non si sono mai tirati indietro davanti alla possibilità di raccontare la storia difficile del loro paese. Ci sono stati molti film sulla schiavitù, sulla segregazione razziale, sulla guerra in Vietnam. Ci sono stati addirittura film sull’indifferenza degli Stati Uniti per il genocidio in Ruanda, una vicenda che sugli americani ha avuto un impatto inevitabilmente inferiore rispetto ai fatti di Tulsa.
Eppure sui massacri razziali – almeno trenta – compiuti tra il 1917 e il 1921, anche prima di quello di Tulsa, è stato girato solo un film: Rosewood, di John Singleton nel 1997, sul massacro che nel 1923 distrusse la città di Rosewood, in Florida. Penso che il motivo per cui la storia di Tulsa non è mai stata raccontata come si deve sia chiaro: gli statunitensi non sono pronti a fare i conti con la ferocia intrinseca del loro razzismo e con il fatto che questa ferocia esiste ancora.
L’anno scorso abbiamo visto la reazione indignata di molti cittadini dopo la morte di George Floyd, nero, ucciso da un agente di polizia bianco. Ci sono state manifestazioni di massa contro la polizia in tutti gli Stati Uniti. Alcune partite del campionato professionistico di pallacanestro sono state rinviate perché gli atleti (non solo quelli neri) hanno voluto esprimere solidarietà ai manifestanti. Grandi aziende hanno diffuso comunicati con cui denunciavano il razzismo e s’impegnavano a sostenere le comunità nere. L’ultima travolgente ondata del movimento Black lives matter mi ha sbalordito. Ero pieno di speranza. Poi il vento è cambiato. Lo sdegno che pensavo avrebbe migliorato l’esistenza degli afroamericani svantaggiati è evaporato. Non c’è stata nessuna riforma sostanziale della polizia. Non c’è stato alcun cambiamento reale nel modo in cui si parla del razzismo.
Questo ritorno a una frustrante normalità in cui i neri e le altre minoranze sono emarginati e penalizzati è avvenuto per lo stesso motivo che spinge le case di produzione a ignorare le storie dei massacri razzisti del passato: i circoli a maggioranza bianca che controllano Hollywood sono disposti a occuparsi dei capitoli più noti della storia della schiavitù o del movimento per i diritti civili, ma non hanno intenzione di affrontare episodi più recenti o circoscritti di violenza commessa dai bianchi ai danni dei neri.
Modelli per le masse
Certo, il cinema non ha del tutto ignorato eventi come il massacro di Tulsa o altre rivolte razziali. Oltre a Rosewood, negli ultimi anni c’è stata una certa attenzione per la rivolta di Los Angeles. E tra il 2019 e il 2020 le serie della Hbo Watchmen e Lovecraft country hanno parlato del massacro di Tulsa. Ma in entrambe le serie è solo un riferimento che serve a spiegare le motivazioni dei personaggi. E c’è una grande differenza tra mostrare un massacro storico come quello di Tulsa in un’opera di finzione, come punto di riferimento per la costruzione di un personaggio, e ricostruire la vicenda nei dettagli, soffermandosi sugli effetti che può aver avuto sui neri e sull’intero paese. Ci vorrebbe un impegno maggiore per raccontare la verità sul terribile passato degli Stati Uniti, andando oltre la storia della schiavitù. Perché il danno arrecato ai non bianchi ha continuato a crescere dopo la fine della schiavitù.
Quando nel 1915 uscì nelle sale il famigerato Nascita di una nazione di David W. Griffith, gli affiliati del Ku klux klan aumentarono vertiginosamente. Negli anni successivi la violenza mostrata nel film ispirò decine di atti violenti di razzismo. Un unico film, a prescindere dalle intenzioni degli autori, è stato capace di incrementare la violenza razzista.
La rappresentazione nella produzione culturale è determinante. Film, serie tv, libri e spettacoli teatrali possono ispirare comportamenti positivi ma anche negativi. Abbiamo bisogno di opere di grande diffusione che mostrino quanto quelli che avevano il potere siano stati malvagi, repressivi e feroci nei confronti delle comunità nere nel corso della breve storia degli Stati Uniti.
Questa malvagità non si è conclusa con la fine della schiavitù. La violenza razzista esiste ancora oggi e porta con sé l’eco degli eventi orribili del passato.
Quando ci riconcilieremo con questa verità e ammetteremo che per secoli centinaia di neri sono stati uccisi solo perché neri – dopo la fine della schiavitù, prima del movimento per i diritti civili e prima della morte di Trayvon Martin, Tamir Rice, Breonna Taylor e George Floyd – finalmente non dovrò più sorprendere i miei studenti con la storia di uno dei peggiori massacri del nostro passato, accaduto proprio dietro l’angolo. ◆ as
Lawrence Ware insegna filosofia alla Oklahoma state university.
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Questo articolo è uscito sul numero 1412 di Internazionale, a pagina 89. Compra questo numero | Abbonati