La notte in cui le forze di terra israeliane hanno cominciato l’invasione della città di Gaza, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto un discorso al ministero delle finanze nel quale ha esposto la sua oscura idea per il futuro del paese come stato isolato e fuorilegge. Di fronte alle crescenti sanzioni internazionali (il giorno dopo l’Unione europea ha annunciato la sospensione di alcune parti fondamentali del suo accordo commerciale con Tel Aviv) Israele dovrà diventare una “super Sparta”, ha detto. Netanyahu, ex consulente economico che ha contribuito alla svolta del paese verso il libero mercato, ha spiegato che l’economia israeliana dovrà assumere “caratteri di autarchia” e abbandonare il consenso di Washington (il modello di sviluppo imposto dalle grandi istituzioni economiche con sede a Washington) che fino a oggi ha governato gli affari globali. In altre parole, andrà verso il modello di Mosca e Pyongyang.
Le parole di Netanyahu tratteggiano non solo una nuova strada per Israele, ma anche un ordine mondiale emergente e il posto che Israele occuperebbe al suo interno. “Il mondo si è diviso in due blocchi”, ha detto. “E noi non siamo parte di nessuno dei due”. Sul palco Netanyahu è sembrato quasi rincuorato dalla possibilità che questo presunto non-allineamento offra a Israele un margine di manovra ancora più ampio nel suo assalto a Gaza. Ma è molto più probabile che un isolamento a lungo termine sia una minaccia, piuttosto che una protezione. Tutti gli statisti israeliani avevano compreso questo principio fondamentale, fino a oggi.
Un nuovo rapporto
Netanyahu sogna di liberarsi dalle condizioni e dai vincoli imposti a Israele dagli Stati Uniti, anche se minimi, fin dalla sua prima campagna elettorale per diventare premier. In un memorandum del 1996 intitolato A clean break: a new strategy for securing the realm (Una rottura netta. Una nuova strategia per consolidare il dominio), un gruppo formato da esponenti di un centro studi conservatore e consulenti di Netanyahu chiedeva a Israele di instaurare un nuovo rapporto con gli Stati Uniti “fondato sull’autosufficienza”. Se Israele non ha più bisogno di aiuti tanto consistenti da parte degli Stati Uniti, era la logica, Washington non può più costringerlo a fare compromessi con i palestinesi.
D’altra parte, Netanyahu ha sempre immaginato Israele come parte del blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti. Nel suo libro del 1998 A place among the nations, sosteneva che con la fine della guerra fredda Israele avrebbe dovuto agire come cane da guardia del nuovo mondo unipolare, il poliziotto dell’occidente in Medio Oriente. “Senza nessuno nella regione che tenga costantemente sotto controllo le loro ambizioni o gli ossessivi piani di armamento”, scriveva a proposito dei “regimi miliziani” del Medio Oriente, il compito di Israele era quello di “salvaguardare il più ampio interesse della pace”. Tacitamente, e a volte esplicitamente, i leader statunitensi ed europei hanno accolto e sostenuto questo ruolo.
La distruzione israeliana della Striscia di Gaza – e la crisi regionale che ha innescato – hanno cambiato la situazione.
Dopo mesi di inazione, mentre le forze israeliane rendevano Gaza inabitabile, gli stati europei hanno cominciato a fare pagare a Israele le conseguenze delle sue azioni. I leader europei stanno anche ripensando alle loro relazioni future con Tel Aviv. E non semplicemente perché le proteste contro la guerra israeliana hanno trasformato la distruzione di Gaza in una questione politica interna esplosiva nelle capitali europee. È successo perché l’Israele di Netanyahu si è dichiarato un nemico dei valori di cui la nuova Europa va fiera: pace, democrazia e diritti umani.
Negli Stati Uniti Israele ha perso non solo la sinistra – questa è una vecchia storia – ma ha cominciato a perdere anche la destra. Sui social media pagine e influencer di destra diffondono stravaganti teorie del complotto antisemite su temi che vanno dagli antibiotici all’omicidio dell’attivista conservatore Charlie Kirk. La nuova destra statunitense non versa lacrime per i musulmani morti, ma si compiace della nuova immagine di Israele come forza demoniaca e inquietante. Nel 2021 Ron Dermer, allora ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, aveva provocato un forte sdegno affermando che Israele avrebbe dovuto dare priorità al sostegno dei cristiani statunitensi rispetto a quello degli ebrei. Per quello che era il suo obiettivo – garantire un sostegno alle guerre di Israele – questa strategia ha platealmente fallito. A differenza degli evangelici più anziani, nel complesso forti sostenitori di Israele, i cristiani statunitensi più giovani hanno già cominciato a cambiare direzione. Come ha detto di recente Megyn Kelly, ex conduttrice conservatrice di Fox News: “Tutti quelli sotto i trent’anni odiano Israele”.
◆ Continua la fuga degli abitanti della città di Gaza di fronte all’offensiva di terra lanciata il 16 settembre 2025 dall’esercito israeliano, che negli ultimi giorni si sta spingendo nelle zone più popolate. Tre ospedali hanno smesso di funzionare. Il 22 settembre il bilancio del ministero della salute palestinese era di 65.344 morti dall’inizio dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre 2023.
◆ Il 23 settembre l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha reso nota la decisione israeliana di chiudere “fino a nuovo ordine” il valico di Allenby, il principale passaggio tra la Cisgiordania e la Giordania. Afp, Bbc
L’aiuto degli alleati
La demolizione intenzionale del consenso bipartisan negli Stati Uniti da parte di Netanyahu e della sua cricca è sempre stata una scommessa tracotante. Come una bomba a orologeria programmata male, ora gli è esplosa in faccia. Anche se aveva ragione a ritenere che la destra statunitense fosse in ascesa, l’ufficio del primo ministro non ha capito che questa nuova destra trae il suo potere dalla promessa dell’isolamento, alimentata dalla rabbia nei confronti del modello interventista rappresentato dai più stretti alleati di Israele a Washington. Questi uomini, che si sono formati nell’epoca d’oro del neoconservatorismo, hanno ignorato la prospettiva di un mondo post-americano.
Di fronte alle crescenti condanne e all’incombere di sanzioni internazionali, Netanyahu si è rifiutato di fermare l’attacco. Ora, per mandare avanti la guerra – guidato forse dalla meschina sopravvivenza politica, da un messianismo megalomane o da entrambi – sta proponendo la rottura con il principio fondamentale della politica estera sionista.
Fin dall’inizio, quando Theodor Herzl chiese udienza al sultano ottomano, il sionismo conta sul supporto delle grandi potenze. Ha avuto successo non grazie all’intervento divino o a un piano provvidenziale, ma perché i primi politici sionisti cercarono queste alleanze. Avevano capito che per gli ebrei, come per altre piccole nazioni, l’isolamento era una trappola mortale. Nell’ultimo secolo i vecchi imperi sono caduti e nuove potenze li hanno sostituiti, ma il principio è rimasto lo stesso. Dopo la fondazione di Israele, i suoi primi leader temevano che senza un’alleanza con le potenze regionali e globali più forti il progetto sionista sarebbe fallito. David Ben-Gurion sognava un accordo di difesa reciproca con gli Stati Uniti. Nel tempo Israele è riuscito a ottenere il sostegno statunitense; verosimilmente, è una delle ragioni per cui è sopravvissuto.
Forse dunque, uno degli aspetti più incoerenti, perfino deliranti, della concezione di Netanyahu è aver dichiarato che Israele non appartiene a nessun blocco globale proprio nel momento in cui il paese appare come l’alleato ingombrante degli Stati Uniti. Gli ultimi due anni hanno mostrato l’estrema dipendenza di Tel Aviv da Washington sotto ogni aspetto, dalle munizioni allo scambio di informazioni d’intelligence. La guerra dei dodici giorni contro l’Iran ha rivelato una condizione di stato vassallo che invoca l’aiuto del signore feudale.
C’è, però, una cosa giusta nel discorso di Netanyahu: l’ordine unipolare nato dopo il 1989 è finito. L’ingresso incerto nel secolo post-americano minaccia anche di far crollare il sistema di norme e istituzioni internazionali che ha preso forma sotto l’ombrello dell’egemonia statunitense.
Israele deve a questo sistema la sua attuale prosperità, se non la sua esistenza. Eppure, negli ultimi due anni di questa guerra estenuante, è sembrato che i leader di Israele abbiano voluto abbatterlo. Le azioni di Israele a Gaza hanno pesantemente offuscato la sua legittimità. Nel lungo termine, tuttavia, senza questo sistema Israele andrà incontro a un destino disastroso. Nel suo discorso Netanyahu ha attinto alla tradizione greca, ma forse il riferimento più appropriato si trova nella Bibbia. L’esempio che Netanyahu ha proposto di seguire non è Sparta, ma è Sansone. ◆ fdl
Joshua Leifer è un giornalista della rivista statunitense Dissent. Ha vissutoa Gerusalemme e ha scritto ancheper +972 Magazine e The New YorkReview of Books.
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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati