Il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti ha appena raggiunto un accordo con gli altri paesi del G7 in base al quale l’imposta minima globale non sarà applicata alle aziende statunitensi. I governi del G7 hanno ceduto alle pressioni del presidente Donald Trump e a quelle delle multinazionali. Proprio come l’India e, purtroppo, anche il Canada hanno ceduto sulla tassa sui servizi digitali. Anni fa i tanti paesi che fanno parte dell’Ocse hanno riconosciuto che troppe aziende non pagavano una quota equa di tasse e che alcune non le pagavano dove svolgevano la loro attività. Il risultato è stato il complesso accordo emerso nel 2021, che poggiava su due pilastri. È stato adottato solo il secondo, che prevedeva un’imposta minima globale sugli utili aziendali. Nonostante un consenso globale sulla sua necessità, la versione adottata dagli Stati Uniti durante il primo mandato di Trump era più morbida di quella prevista nel resto del mondo, perché permetteva alle multinazionali di “compensare” ciò che non pagavano nei paradisi fiscali con gli “extra” versati negli Stati Uniti o in altre giurisdizioni ad alta tassazione. Pur essendo tutt’altro che perfetto, il secondo pilastro è stato un primo tentativo di garantire un’aliquota fiscale minima del 15 per cento sui profitti delle multinazionali in tutto il mondo.

Naturalmente sono state introdotte alcune eccezioni, che hanno abbassato l’aliquota effettiva sotto il 15 per cento, una soglia peraltro già inferiore a quella imposta da molti paesi in via di sviluppo. Avrebbe dovuto essere più alta e le esenzioni avrebbero dovuto avere una portata più limitata. Il secondo pilastro dell’accordo, tuttavia, ha fermato la corsa di alcuni paesi che offrivano aliquote più basse pur di attirare le aziende. Per il mondo nel suo complesso, questa corsa non ha generato molti nuovi investimenti. Hanno vinto le grandi aziende, che hanno intascato i risparmi ottenuti pagando tasse quasi inesistenti in alcuni paesi.

L’imposta minima globale non sarà applicata alle aziende statunitensi. I governi del G7 hanno ceduto alle pressioni del presidente Donald Trump

Ancora una volta però i governi del G7 hanno deciso di mettere gli interessi delle multinazionali davanti a quelli dei paesi in via di sviluppo, delle piccole e medie imprese e dei loro stessi cittadini, che di conseguenza pagheranno tasse più alte. Esentando le multinazionali statunitensi dal secondo pilastro, quest’accordo permetterà ad alcune aziende di non pagare le tasse o pagarne poche sugli utili realizzati in paesi a bassa tassazione o nei paradisi fiscali. Ciò le renderà più competitive rispetto alle multinazionali non statunitensi, che ora a causa del trattamento preferenziale sono incentivate a spostare la loro sede centrale negli Stati Uniti.

L’accordo del G7 rischia di compromettere l’applicazione dell’imposta minima in tutto il mondo e si prende gioco dell’inclusività del cosiddetto Quadro inclusivo Ocse/G20, un tavolo che unisce più di 140 paesi. A dire il vero, molti paesi in via di sviluppo si erano lamentati del fatto che quell’accordo fosse ingiusto per loro e che i paesi più potenti non avessero dato ascolto alle loro preoccupazioni. Ora ai paesi che non fanno parte del G7, tra cui decine di economie emergenti e in via di sviluppo, si chiede di approvare una decisione imposta da un unico paese.

Il secondo pilastro dovrebbe diventare più incisivo, non essere eliminato. Al momento si applica solo alle grandi multinazionali (con un fatturato globale pari o superiore a 750 milioni di euro), mentre l’aliquota del 15 per cento è bassa. Ma quantomeno era un punto di partenza. La decisione del G7, invece, manda un messaggio sbagliato al resto del mondo. A giugno alle Nazioni Unite era stato manifestato un consenso globale sulla necessità di rafforzare la cooperazione fiscale internazionale e d’implementare sistemi fiscali progressivi. Un’ampia maggioranza aveva sostenuto anche i negoziati a favore di una convenzione quadro delle Nazioni Unite sulla cooperazione fiscale internazionale. Washington, però, li ha appena abbandonati. Nell’adozione del compromesso di Siviglia, il documento finale della quarta conferenza internazionale dell’Onu sul finanziamento allo sviluppo che si è svolta il 30 giugno, gli Stati Uniti sono stati l’unico grande paese assente. Permettere a Washington di aggirare le già limitate regole del secondo pilastro non solo mina il multilateralismo, ma aggrava l’iniquità della fiscalità globale.

I membri del quadro inclusivo Ocse/G20 dovrebbero respingere l’accordo del G7. Gli Stati Uniti non devono dettare la politica globale. Sono potenti, ma rappresentano comunque meno del 20 per cento del pil mondiale. I paesi riuniti a Siviglia possono scegliere se accettare che Washington ostacoli ogni sforzo per garantire che le multinazionali paghino la loro giusta quota di tasse o rilanciare la creazione di un nuovo sistema fiscale internazionale nell’ambito delle Nazioni Unite. Per il bene dell’economia mondiale e delle persone di tutto il mondo dovrebbero scegliere la seconda strada. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati