Makanika è tornato in guerra. Sull’uniforme dell’ex colonnello dell’esercito congolese, disertore, non ci sono simboli né bandiere: Michel Rukunda, questo il suo vero nome, obbedisce solo a se stesso. Asserragliato sugli altopiani del Sud Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), si dice “pronto a morire” per i suoi. I suoi sono i banyamulenge, una comunità di pastori tutsi dalle lontane origini ruandesi. Da gennaio del 2020 Makanika è uno dei comandanti della loro lotta armata. I banyamulenge vivono nell’Rdc da secoli (secondo alcuni studiosi da prima del 1885, l’anno in cui questo territorio diventò proprietà personale di re Leopoldo II del Belgio), ma non sono riconosciuti parte integrante della nazione. Le altre comunità li considerano degli invasori al soldo del regime ruandese di Paul Kagame. Dal 2017 i banyamulenge sono il bersaglio delle milizie mai-mai, formate da giovani bantu a scopo di autodifesa e spesso anche loro comandate da altri disertori dell’esercito congolese. Gli assalti contro i villaggi dei banyamulenge si sono intensificati alla fine dell’anno scorso. “Vogliono cancellare la mia comunità dalla mappa del paese”, denuncia Makanika, che nega di ricevere aiuti dal Ruanda e accusa i mai-mai di avere l’appoggio di alcuni dei gruppi armati stranieri che proliferano nelle province orientali dell’Rdc.

Dalla fine degli anni novanta Uganda, Ruanda e Burundi, che confinano con
l’Rdc, conducono qui innumerevoli guerre per procura o usano alcune milizie per annientare le rispettive opposizioni interne. Spesso conflitti scatenati per motivi in apparenza futili finiscono per assumere una dimensione regionale.

Come le centinaia di signori della guerra che mettono a ferro e fuoco le province orientali dell’Rdc, Makanika conosce bene queste dinamiche. Del resto, anche lui ne è un prodotto. Quand’era molto giovane fu attirato dalla guerriglia per reazione alle politiche discriminatorie della dittatura di Mobutu Sese Seko (1965-1997), che perseguitava i tutsi congolesi. Negli anni novanta aderì al Fronte patriottico ruandese (Fpr), fondato da Fred Rwigema e da Paul Kagame e sostenuto dal presidente ugandese Yoweri Museveni. Makanika ricevette un addestramento militare in Uganda e fece il battesimo delle armi in Ruanda, dove contribuì alla vittoria di Kagame, che nel 1994 entrò a Kigali e mise fine al genocidio dei tutsi. In quel periodo l’afflusso di centinaia di migliaia di profughi ruandesi, in gran parte hutu, nell’Rdc rese critica la situazione per i banyamulenge. Per questo nel 1996 Makanika decise di tornare nel suo paese a combattere.

Gli abitanti del Sud Kivu non hanno mai dimenticato l’arrivo dei combattenti dell’Fpr con indosso la divisa dell’esercito ruandese, capeggiati da miliziani banyamulenge che cercavano vendetta. Il 6 ottobre 1996 attaccarono l’ospedale di Lemera, dove uccisero una trentina di pazienti (il massacro diede il via a quella che sarebbe passata alla storia come la prima guerra del Congo). Il vicegovernatore del Sud Kivu ordinò a tutti i banyamulenge di lasciare lo Zaire (il nome dell’Rdc a quei tempi). Ma il gruppo stava acquisendo sempre più potere all’interno del movimento guidato dal leader marxista Laurent-Désiré Kabila, che era deciso a rovesciare Mobutu con il benestare di Ruanda e Uganda. Gli uomini di Kabila marciarono per duemila chilometri verso la capitale Kinshasa, dove il 17 maggio 1997 fecero cadere il dittatore.

Nonostante il contributo decisivo all’ascesa di Laurent-Désiré Kabila, i banyamulenge non ottennero il riconoscimento che si aspettavano. Nel giro di pochi mesi si consumò il divorzio fra Laurent Désiré-Kabila e i suoi alleati ruandesi e ugandesi, e scoppiò la seconda guerra del Congo (1998-2003), che coinvolse nove paesi africani (Rdc, Uganda, Ruanda, Burundi, Namibia, Angola, Zimbabwe, Ciad, Sudan) e causò la morte di centinaia di migliaia di congolesi.

Fu allora che Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda, e Paul Kagame, presidente del Ruanda, s’imposero come gli uomini forti nella tormentata regione dei Grandi laghi. Le loro truppe occuparono parte delle province orientali dell’Rdc, ne saccheggiarono le risorse (miniere e legname pregiato) e ne sfruttarono le terre fertili. Tuttavia anche questi fratelli d’armi alla fine diventarono rivali, al punto di scontrarsi sia direttamente, a Kisangani, nella “guerra dei sei giorni” (5-10 giugno 2000) sia attraverso i movimenti politico-militari congolesi che controllavano. E così la galassia dei gruppi armati attivi nell’est dell’Rdc si è ricomposta ogni volta in funzione di interessi, alleanze e tradimenti.

Di padre in figlio

A Kinshasa Joseph Kabila prese il posto del padre Laurent-Désiré, che il 16 gennaio 2001 fu assassinato da una delle sue guardie. Nell’est la questione della lealtà al regime ruandese divise i banyamulenge: alcuni signori della guerra, tra cui Makanika, stanchi di essere strumentalizzati, decisero di cambiare schieramento e si misero a combattere i fiancheggiatori del Ruanda (per esempio il Rassemblement congolais pour la démocratie, Rcd, di Goma), a cui davano la colpa di tutte le difficoltà che da decenni ostacolavano il loro riconoscimento come parte della nazione congolese.

Oggi, osserva un analista che preferisce restare anonimo, “il Ruanda vede nei banyamulenge la minaccia principale dal vicino Congo”. Dal settembre del 2017 per circa un anno, alcuni villaggi tra gli altopiani del Sud Kivu controllati dai miliziani banyamulenge hanno ospitato combattenti di Kayumba Nyamwasa, il nemico numero uno di Paul Kagame. Nyamwasa, ex generale e capo di stato maggiore dell’esercito ruandese, sogna da tempo, dal suo esilio in Sudafrica, di rovesciare il presidente ruandese. Alla fine del 2017 la presenza degli uomini di Nyamwasa era per il Ruanda una provocazione e le relazioni tra Kagame e Joseph Kabila si sono deteriorate.

“Non esiste una vera solidarietà etnica o politica. Contano solo gli interessi”, constata Alexis Sinduhije, un giornalista e politico dell’opposizione burundese, che nel 2008 fu arrestato e poi andò in esilio. Alcuni giovani del suo partito, il Mouvement pour la solidarité et la démocratie (Msd), in prevalenza tutsi, hanno imbracciato le armi nel Sud Kivu contro il regime autoritario del Burundi. Secondo un’inchiesta dell’Onu l’avrebbero fatto dietro suo ordine, ma è un’accusa che Sinduhije respinge. Gli inquirenti e le autorità del Burundi sospettano inoltre che l’Msd sia appoggiato dal Ruanda. Nell’attesa di “liberare il Burundi” i combattenti dell’Msd vagano sugli altopiani del Kivu, dove secondo alcune fonti danno man forte ai miliziani mai-mai quando, quasi quotidianamente, aggrediscono i banyamulenge, ne razziano il bestiame, uccidono civili, incendiano villaggi. Gli stessi crimini sono compiuti dai giovani agli ordini di Makanika, che li descrive come studenti che hanno abbandonato le aule universitarie a Nairobi, Kampala o Kigali per tornare a casa e “salvare il loro popolo”.

Miliziani del gruppo Urdpc-Codeco a Masumbuko, nell’Ituri, 18 settembre 2020 (Alexis Huguet, Afp/Getty)

Queste violenze creano grandi spostamenti di civili: i dati dell’Onu parlano di quasi 300mila sfollati tra il febbraio del 2019 e il settembre del 2020, centinaia di morti e decine di violenze sessuali sulle donne. Oggi la Rdc conta più di cinque milioni di sfollati interni. Un milione di congolesi vivono da profughi nei paesi confinanti.

La promessa della pace

La missione delle Nazioni Unite nell’Rdc si chiama Monusco e quest’anno dovrebbe essere ulteriormente potenziata. Nonostante i miliardi di dollari spesi da quando fu creata nel 1999, non è mai riuscita a fermare le stragi né a proteggere i civili. Per quanto riguarda i soldati dell’esercito, non solo non sono riusciti a ristabilire l’ordine ma sono a loro volta responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Difficilmente gli aiuti umanitari riescono a raggiungere le zone di conflitto, soprattutto quelle isolate come gli altopiani del Sud Kivu; in queste aree il cibo scarseggia, mentre non mancano le munizioni. Alle violenze commesse dalle milizie e dall’esercito si è aggiunta, nelle province dell’Ituri e del Nord Kivu, un’epidemia di ebola, che tra l’agosto del 2018 e il giugno del 2020, ha ucciso più di duemila persone.

Il successore di Joseph Kabila, Félix Tshisekedi, voleva passare alla storia come il presidente in grado di fermare l’infinita tragedia umana delle province orientali. “Credetemi: sono pronto a morire perché torni la pace”, ha dichiarato il 7 ottobre 2019 durante una visita alla città di Bukavu, sul lago Kivu, al confine con il Ruanda. In quell’occasione il presidente, che aveva prestato giuramento appena dieci mesi prima, si rivolgeva ai miliziani chiedendogli di deporre le armi. Ma i programmi di reinserimento degli ex combattenti nella società civile o d’integrazione nell’esercito regolare, spesso molto costosi e accompagnati da garanzie di amnistia per gli assassini, sono serviti a poco, perché mancavano la volontà politica e le risorse finanziarie. Forse Tshisekedi è stato un po’ precipitoso nel promettere il ritorno della pace.

Il presidente congolese ha affiancato al suo piano per sradicare dal Kivu i gruppi armati stranieri il tentativo di creare una coalizione militare regionale che coinvolgesse Uganda, Ruanda e Burundi. Ma i suoi sforzi sono stati vanificati dal suo ingombrante predecessore, Joseph Kabila, che fino a poco tempo fa era anche suo alleato politico. Kabila ha ancora molta influenza non solo in parlamento ma anche all’interno delle forze di sicurezza e presso i capi di alcune milizie. Così, secondo gli analisti del Kivu security tracker (un progetto di monitoraggio delle violenze nelle province orientali dell’Rdc), dopo venti mesi di presidenza Tshisekedi e più di duemila civili uccisi, il bilancio è “più pesante di quello degli ultimi venti mesi” della presidenza di Kabila.

Il presidente congolese si è avvicinato a Paul Kagame. Ma la sua inesperienza è stata una manna dal cielo per il Ruanda

Non è servita a molto neanche l’operazione militare su vasta scala lanciata alla fine di ottobre del 2019 dal governo di Kinshasa, con l’obiettivo di “sradicare definitivamente” i miliziani ugandesi delle Forze democratiche alleate (Adf). Questo gruppo armato, che due anni prima aveva giurato fedeltà al gruppo Stato islamico per creare una sua wilaya (provincia) in Africa centrale, dal 2014 semina terrore e morte nell’area di Béni, nel Nord Kivu. Anche se quasi mai sono rivendicati, questi attacchi sanguinosi vengono sistematicamente attribuiti alle Adf dalle autorità congolesi e dall’Onu.

Secondo il Kivu security tracker, dall’inizio dell’intervento al 17 novembre 2020 nella zona di Béni sono stati uccisi 811 civili.

Il 14 dicembre il presidente congolese ha annunciato che la riforma dei “programmi di disarmo, smobilitazione, reintegrazione comunitaria e stabilizzazione” entrava nella “fase finale”. Ma per Claude Ibalanky, coordinatore del meccanismo di monitoraggio istituito dall’accordo di Addis Abeba (firmato nel febbraio del 2013 per cercare di mettere fine alla violenza endemica nella regione), “l’est dell’Rdc resterà un campo di battaglia dove tutti regoleranno i loro conti finché le tensioni non si saranno placate”.

Dopo aver rotto la coalizione con Jo­seph Kabila, che gli impediva di svolgere il suo programma di riforme, a Tshisekedi (l’unico civile al potere nella regione dei Grandi laghi, governata da ex guerriglieri trasformati in leader autoritari) resta solo la diplomazia.

Il presidente congolese ha optato per una politica di aperta rottura con quella del suo predecessore, e fin dall’inizio si è avvicinato a Kagame. Ma la sua inesperienza si è rivelata una manna dal cielo per il presidente del Ruanda che, come ha rivelato Radio France International, nel giugno del 2019 ne ha approfittato per riprendere le operazioni in territorio congolese e indebolire i gruppi armati a lui ostili.

Da sapere
Il business dei sequestri

L’omicidio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese del World food programme Mustapha Milambo, il 22 febbraio a pochi chilometri da Goma, potrebbe essere oggetto di un’inchiesta internazionale perché, come scrive il sito congolese Actualité, la procuratrice generale della Corte penale internazionale (Cpi) Fatou Bensouda ha ricordato che gli attacchi ai convogli umanitari o di missioni di mantenimento della pace possono costituire dei crimini in base allo statuto di Roma. La loro morte, scrive Mediapart, è “un fatto eccezionale, ma allo stesso tempo tragicamente comune. Eccezionale perché l’uccisione di un diplomatico è un evento raro e dalle conseguenze pesanti”. Oltre alla morte dell’ambasciatore francese Philippe Bernard, nel 1993 a Kinshasa, colpito da un proiettile vagante, il sito ricorda l’uccisione dei due esperti dell’Onu Zaida Catalán e Michael Sharp, nel 2017 nel Kasai, mentre svolgevano un’inchiesta sui crimini di una milizia locale.

Allo stesso tempo l’attacco rientra in uno schema noto. In un rapporto del 2020, l’ong Human rights watch registra 170 casi di rapimento a scopo d’estorsione nell’area di Bukoma, che dista cinquanta chilometri da Kibumba, la località dov’è stato assalito il convoglio del World food programme. I rapitori, scrive Mediapart, potrebbero essere stati attratti dai simboli dell’agenzia dell’Onu: gli operatori umanitari sono infatti un bersaglio privilegiato. Per il rilascio di un medico, per esempio, le richieste di riscatto possono arrivare a diecimila dollari. I sequestratori raramente sono identificati, osserva Pierre Boisselet, un esperto del progetto Kivu security tracker. Le autorità locali hanno accusato dell’uccisione di Attanasio, Iacovacci e Milambo i ribelli delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr), ma la milizia – che non è molto presente in quell’area – ha smentito il suo coinvolgimento. ◆


L’ultimo rapporto del gruppo di esperti delle Nazioni Unite sull’Rdc è del 23 dicembre 2020 e segnala la presenza di soldati ruandesi in un campo di addestramento creato lo scorso aprile nel Nord Kivu. Sei mesi dopo, scrivono gli esperti dell’Onu, sono stati avvistati sessanta soldati ruandesi “che trasportavano 18 mitragliatrici Pkm e quattro lanciarazzi”. Ma il Ruanda nega. Come ha confidato un consigliere del presidente Tshisekedi in materia di sicurezza, “è stato permesso ai ruandesi d’intervenire sul territorio congolese per neutralizzare alcuni gruppi a loro ostili, che danneggiano anche i congolesi. Siamo consapevoli che Kigali e Kampala hanno una parte di responsabilità per i disordini nell’est del paese. Sarebbe un successo se riuscissimo ad arginare, anche solo in parte, l’influenza ruandese”.

Più che alla diplomazia, il capo di stato congolese dovrebbe dedicarsi a un rischioso esercizio di equilibrismo: cercare di coltivare buoni rapporti con l’Uganda di Yoweri Museveni, che è ancora in conflitto con Kagame. I due si accusano a vicenda di portare avanti attività di spionaggio e sovversione attraverso gruppi armati che agiscono nell’est dell’Rdc. “Non siamo mica fessi! Sappiamo che nessuno dei due dice la verità sulla sua presenza nelle nostre province orientali”, dice un diplomatico congolese. Secondo lui, nella regione dei Grandi laghi la pace “sarà possibile quando Kagame e Museveni lasceranno il potere, sempre che questo non scateni un bagno di sangue”.

Paul Kagame, potente e temuto, dopo essersi gradualmente isolato ed essere finito al centro delle tensioni regionali, non è molto convincente quando dice di voler ristabilire le relazioni con i vicini. Perché non solo i rapporti con l’Uganda continuano a deteriorarsi, ma anche quelli con il Burundi.

Il rapporto
Violenze costanti
Civili morti nell’est della Repubblica Democratica del Congo a causa della violenza dei gruppi armati (fonte: Kivu security tracker)

◆ Il Kivu security tracker, un progetto nato dalla collaborazione tra l’ong Human rights watch e il Congo research group, ha registrato la presenza di 122 gruppi armati attivi nelle province congolesi del Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri e Tanganyika. Le due milizie più grandi e violente sono le Forze democratiche alleate (Adf, ugandesi, vicine all’ideologia jihadista), le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr, in origine hutu ruandesi, tra i 500 e i mille combattenti). Anche l’esercito nazionale è in gran parte responsabile della situazione, per i gravi abusi sui civili, i numerosi casi di comandanti che fanno affari con le milizie o semplicemente per l’inerzia e la mancanza di volontà d’intervenire.


A capo di regimi politici-militari, Kagame, 63 anni, al potere dal 2000, pur di restare in carica ha modificato la costituzione del Ruanda. Lo stesso ha fatto in Uganda Yoweri Museveni, 76 anni, di cui quasi 35 da presidente, che ha ottenuto un sesto mandato alle elezioni di gennaio. Il burundese Évariste Ndayishimiye, 52 anni, è succeduto a giugno del 2020 a Pierre Nkurunziza, “guida suprema del patriottismo”, morto per un attacco di cuore (ma si sospetta fosse malato di covid). Questi tre leader perpetuano l’instabilità della regione attraverso i loro metodi autoritari. Gli oppositori sono sistematicamente repressi, a volte uccisi o costretti all’esilio; alcuni continuano la loro lotta prendendo le armi di là dal confine con la Rdc.

“È inutile parlare di pace nella regione”, commenta Stephanie Wolters, ricercatrice del South african institute of international affairs, “senza considerare i gravi problemi di democrazia in questi paesi. Ogni volta che c’è un dissidio tra loro, scoppiano nuove ostilità in territorio congolese”.

Il fratello minore

Tshisekedi lo sa bene. Insieme al presidente angolano João Lourenço ha avviato una delicata mediazione per allentare le tensioni tra Uganda e Ruanda. Nell’agosto del 2019 Museveni e Kagame si sono impegnati a rispettare la “sovranità dell’altro e quella degli stati vicini” e a non “finanziare o addestrare” gruppi armati per non aggravare la crisi. Ma queste iniziative regionali non sono gradite al presidente burundese Ndayishimiye, che non ha partecipato al vertice online tra i capi di stato della regione dei Grandi laghi, il 7 ottobre scorso. Secondo alcuni diplomatici che lavorano nella regione, evidentemente per lui non era ancora il momento di “sedersi allo stesso tavolo di Kagame”.

Come osserva Paul Nantulya, ricercatore dell’Africa center for strategic studies del dipartimento della difesa degli Stati Uniti: “Nessuno si aspetta che Tshisekedi riuscirà a ottenere molto. È ingenuo, politicamente debole, e gli altri leader della regione non lo prendono sul serio, anzi si servono di lui per far credere ai partner occidentali che vogliono la pace”.

Forse il presidente congolese, che quest’anno è anche presidente dell’Unione africana, spera ancora di convincere Uganda, Ruanda e Burundi a unirsi per “scacciare le forze negative” dalle province orientali dell’Rdc. Museveni e Kagame, per il momento, si accontentano di non contrariare il “fratello minore”.

Intanto sugli altopiani del Sud Kivu, sulle colline e nelle pianure dell’est
dell’Rdc, Makanika e un centinaio di altri comandanti di gruppi armati continuano la loro guerra come se niente fosse. ◆ ma

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Questo articolo è uscito sul numero 1398 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati