Chi vuole fare un investimento sicuro in Argentina deve comprare un enorme sacco di plastica: sessanta metri di lunghezza per tre di larghezza, in grado di contenere duecento tonnellate di materiale. È il “sacco-silo” e serve agli agricoltori per stipare la soia, il mais e il grano che raccolgono. Questi sacchi sono pratici: permettono di conservare il raccolto dando la possibilità di speculare sull’aumento del prezzo dei prodotti agricoli. Allo stesso tempo, però, rivelano quanto la crisi sia profonda, dimostrando la sfiducia dei produttori nella stabilità dell’economia argentina. Invece di depositare pesos sul conto corrente gli agricoltori preferiscono conservare la loro ricchezza accumulando legumi e cereali.

Nei campi delle province di Buenos Aires, Córdoba e Santa Fé si nasconde un considerevole patrimonio, imballato nella plastica, al riparo dalle intemperie e dai raggi ultravioletti. E proprio su questo patrimonio vorrebbe mettere le mani il presidente argentino Javier Milei, che ha imposto per decreto la sospensione provvisoria dei dazi doganali sull’esportazione dei prodotti agricoli. Adesso chi vende la propria soia all’estero non versa più il 26 per cento dell’incasso allo stato.

Perché il governo ha adottato questa misure? Il punto è che lo scambio di grano, soia e mais sul mercato mondiale avviene in dollari, valuta che gli esportatori argentini dovranno convertire in pesos presso la banca centrale. Insomma, con la sospensione dei dazi Milei vuole incassare dollari per rimpinguare le sue riserve di valuta estera, di cui ha urgente bisogno.

Il decreto numero 2025-682 mostra chiaramente il livello di panico che si sta diffondendo nella Casa rosada, la sede del governo argentino. A Milei i dollari servono subito, tanto che è pronto perfino a rinunciare alle entrate fiscali derivanti dai dazi doganali. Gli servono per ripagare i debiti dell’Argentina e per sostenere il peso, che barcolla. Ma c’è di più: il 26 ottobre gli argentini andranno alle urne per eleggere il congresso e, prima di quella data, Milei non può assolutamente permettersi una crisi. La crisi, però, è arrivata lo stesso. Secondo l’economista argentino Matías Battista, consulente aziendale nella provincia di Santa Fé e ospite fisso in tv, “il programma economico del governo sta attraversando la sua fase più complicata”.

Per uscirne, Milei ha cercato l’aiuto del presidente statunitense Donald Trump. Il 22 settembre il segretario al tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha postato su X la promessa di fare “tutto il necessario per sostenere l’Argentina”. Poche ore dopo Milei è salito sull’aereo presidenziale alla volta di New York, per incontrare Trump in persona. Non era mai successo prima che gli Stati Uniti riservassero un trattamento così premuroso a un presidente argentino. Sarà la vicinanza ideologica fra Trump e Milei, ma è già la seconda volta quest’anno che Buenos Aires riceve un aiuto dall’esterno: a marzo, infatti, per far quadrare i conti era arrivato un prestito miliardario dal Fondo monetario internazionale (Fmi).

Ora, però, l’ambizioso programma di Milei deve fronteggiare una nuova battuta d’arresto, nonostante alcuni considerevoli successi, come il calo del tasso d’inflazione, passato dal 289 per cento dell’aprile 2024 al 34 per cento dell’agosto 2025. E poi, grazie ai durissimi tagli alla spesa pubblica, ha ottenuto un avanzo di bilancio – piccolissimo, a dire il vero – ma con un costo sociale elevato: attualmente, per esempio, Milei sta rifiutando di attuare una legge approvata dal congresso che migliorerebbe la condizione delle persone con disabilità. Del resto, il suo motto è sempre lo stesso: no hay plata, non ci sono soldi.

Sotto controllo

Milei è ossessionato dall’inflazione e dallo stato snello, ma per tenere sotto controllo il carovita gli serve un peso forte, altrimenti le merci d’importazione finiscono per costare troppo. La valuta nazionale, però, è sotto pressione e gli argentini preferiscono risparmiare in dollari, costringendo la banca centrale ad attingere sempre di più alle sue riserve per creare domanda di pesos e mantenerlo forte, come vuole il presidente. Le cose si sono messe particolarmente male a settembre quando, nel giro di tre giorni, la banca centrale ha dovuto cambiare in pesos 1,1 miliardi di dollari. Questo ha allertato chi aveva investito in titoli di stato argentini: la carenza di quei dollari convertiti in pesos, infatti, si farà sentire quando l’Argentina dovrà ripagare i suoi debiti. Sul mercato obbligazionario i titoli argentini sono stati svenduti e il rischio paese è schizzato verso l’alto. Questo significa che contrarre nuovi debiti costerà ancora di più.

L’aiuto promesso dagli Stati Uniti è stato una salvezza per Milei. Il canale Todo Noticias ha aperto il suo telegiornale del mattino annunciando il calo del rischio paese. Pochi stati al mondo sono così abituati alle crisi da riservare l’apertura nel notiziario del mattino a un complesso strumento del mercato finanziario.

Quali sono esattamente i vantaggi dell’aiuto statunitense? Principalmente uno: evitare un terremoto economico in piena campagna elettorale e quindi una sconfitta del presidente alle elezioni di ottobre, come quella subita a settembre nella popolosa provincia di Buenos Aires. Se dovesse ripetersi alle elezioni del congresso, il suo peso politico si ridurrebbe bruscamente.

Milei si è messo in una situazione senza facili vie d’uscita, spiega Battista. All’inizio del 2025, nel momento del raccolto agricolo, la banca centrale avrebbe dovuto comprare dollari. Proprio a questo doveva servire il prestito di marzo dell’Fmi. Ma la banca centrale non l’ha fatto per non indebolire il peso, e la valuta estera invece l’hanno comprata tutti quegli argentini con qualche peso da investire. “Perfino mia zia ha comprato più dollari della banca centrale”, dice Battista.

Secondo l’economista, il modello Milei funziona solo perché il presidente “ha fatto debiti a tonnellate” per pagare gli interessi mensili su quelli contratti in precedenza e per sostenere un peso sopravvalutato. È una mossa talmente irresponsabile che Battista paragona Milei e i suoi ministri a un gruppo di “ragazzini che si mettono a fumare vicino a una pompa di benzina e buttano a terra le cicche”.

Non è esattamente un paragone lusinghiero per un presidente che all’inizio del suo mandato prometteva di trasformare l’Argentina in una grande potenza economica. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1634 di Internazionale, a pagina 105. Compra questo numero | Abbonati