S draiata a letto nella sua stanza, una donna parla ansimando, mentre Mariam Ardati le accarezza dolcemente la mano e ascolta. La donna sta morendo, ha una malattia terminale e il dottore le ha detto che le restano poche settimane di vita. Ardati, che ha circa trent’anni, cerca di rassicurarla. Le sposta con attenzione il cuscino per assicurarsi che stia più comoda mentre la donna, una madre single più o meno della sua stessa età, condivide con lei i suoi timori. Chi si occuperà dei tre bambini (quasi coetanei dei tre figli di Ardati), chi parteciperà al funerale, visto che in Australia la donna non ha nessun familiare? Chi ci sarà con lei al momento della fine? La risposta è: Mariam Ardati. È il suo lavoro.

Mariam Ardati fa parte di un gruppo di persone che offrono sostegno emotivo, fisico, psicologico e pratico a chi, come dice lei, “è in transito verso la fase successiva”: è una doula di fine vita, nota anche come doula della morte.

Anche se non esiste alcuna istituzione pubblica che garantisca una formazione come doula di fine vita, l’International end of life doula association (Associazione internazionale delle doula di fine vita, Inelda), che ha sede nel New Jersey, è presente in nove paesi del mondo, tra cui Regno Unito, Messico e Stati Uniti, e offre corsi di formazione e certificazioni.

Non ci sono cifre precise sul numero di persone che oggi lavorano come doula della morte. L’associazione End of life doula Uk ha formato circa 450 persone da quando è nata nel 2018. L’Inelda sostiene che questa professione si stia diffondendo. Tra il 2018 e il 2019 le persone che hanno ricevuto una formazione sono aumentate del 44 per cento, e del 28 per cento tra il 2019 e il 2020.

Le doula (un termine che in greco significa “serva”) esistono da secoli per aiutare le persone nei momenti di passaggio. Sono più frequentemente associate alla nascita, e offrono conforto alle madri che si preparano ad accogliere un figlio o una figlia. Ma negli ultimi dieci anni le doula di fine vita si sono moltiplicate.

Ardati lavora in modo specifico con la sua comunità, quella musulmana, nella parte sudoccidentale di Sydney, ma le doula della morte sono a disposizione delle persone di tutte le fedi e anche delle persone non religiose. “Il mio compito è aiutare le persone ad accogliere la morte con dignità e in un modo che sia in linea con i loro valori”, spiega.

Questo può significare accendere candele, tenere la mano, fare esercizi di respirazione o passeggiate nella natura. “Qualsiasi cosa li mantenga speranzosi e a loro agio”, spiega Ardati.

Ardati ha notato che stanno aumentando le persone, spesso i giovani, interessate al suo settore e a come potrebbe svolgersi la loro morte

Come succede in vita, anche in punto di morte persone diverse hanno necessità diverse: “Una cliente con cui ho passato tre mesi amava le candele profumate e gli oli essenziali. Ogni settimana controllavo le candele per accertarmi che ne avesse abbastanza, e lei al tramonto le accendeva. Era il suo rituale e l’abbiamo portato avanti fino alla sua ultima notte in questo mondo”, racconta.

Un’altra donna assistita da Ardati sentiva la mancanza dei dolma, un piatto mediorientale a base di foglie di vite ripiene di riso e carne. Ma, come molte persone alla fine della vita, aveva smesso di mangiare e di bere, e non era più in grado d’inghiottire. Perciò voleva riempirsi le narici di quell’odore familiare, che per lei era sufficiente. “L’abbiamo fatto ogni giorno, fino alla fine”, dice Ardati.

Un luogo migliore

La richiesta più frequente di un musulmano in punto di morte è ascoltare una registrazione del Corano, o farlo leggere a voce bassa da una persona seduta accanto al letto. “Sentire i versetti del Corano che parlano dell’amore e della pietà di Allah per le sue creature dà sollievo all’anima. I musulmani vogliono credere che dopo la morte andranno verso un luogo migliore, dove non esistono né dolore né sofferenza, un luogo di felicità eterna. Per questo parlare di jannah (paradiso) e della bellezza di quel luogo aiuta a rendere più sereno il momento finale”.

A volte i musulmani chiedono di avere un letto o una sedia disposte in direzione della Mecca, la stessa posizione che assumono i fedeli quando fanno le preghiere quotidiane. In questo modo sentono di poter continuare a pregare anche se sono costretti a letto. Ed è la stessa posizione che assumerà il corpo quando sarà sepolto. Ardati, che vive con il marito, i tre figli e un gatto, assiste anche le persone che soffrono di disturbi mentali e gestisce una mensa per i senzatetto. Fa tutto da volontaria, anche la doula. I suoi genitori sono libanesi, emigrati in Australia negli anni settanta, quando avevano rispettivamente dieci e 18 anni. Lei e le sue quattro sorelle sono nate in Australia.

Ardati si definisce una “salutista maniaca”. Ha cominciato a fare esercizio fisico a 14 anni. La sua passione poi si è trasformata in una professione e, dopo aver studiato scienze mediche all’Università di Sydney, si è messa al servizio delle autorità sanitarie locali.

Poi ha aperto una palestra per sole donne e ha cominciato a lavorare 72 ore a settimana. Diventata imprenditrice, non aveva tempo per la vita sociale: vedeva a malapena i genitori e, racconta, faceva “lo stretto necessario per quanto riguardava il rapporto con Dio”.

Nel 2004 però è cambiato tutto in seguito a un incidente. Era un sabato pomeriggio: aveva chiuso la palestra ed era salita in auto per tornare a casa. A un incrocio ha avuto uno scontro frontale con un camion che ha mandato in pezzi il sedile del guidatore. Lei però era riuscita in qualche modo a spostarsi su quello del passeggero prima dell’impatto, con il corpo in posizione fetale. Appena uscita dal veicolo, l’auto ha preso fuoco. “Non so cosa sia successo, è stata una cosa sovrannaturale: il tempo era rallentato. È bastata una frazione di secondo, ma in quel momento sono riuscita a spostarmi. Sentivo che non era ancora arrivato il mio momento, ma sono stata vicina alla morte”, racconta.

Vedere la morte in faccia l’ha spinta a farsi domande su chi era e dov’era diretta “da un punto di vista personale, professionale e spirituale”. “Con il senno di poi, è la cosa migliore che mi sia mai capitata. Mi ha dato il tempo di ricalibrare la mia vita”, aggiunge.

Pochi giorni dopo l’incidente Ardati è entrata in un’agenzia di pompe funebri e ha chiesto di poter vedere cosa succede quando una persona muore. Quell’anno ha ceduto la sua attività, ha seguito un corso di formazione come organizzatrice di funerali musulmani, è andata alla Mecca per il pellegrinaggio islamico e ha deciso d’indossare l’hijab.

Nuove domande

Nel 2017, più di dieci anni dopo l’incidente d’auto, Ardati ha cominciato a chiedersi perché incontrava così tante persone traumatizzate e in ansia per la fine dei loro giorni. Si è resa conto che buona parte del loro malessere era legato alla burocrazia. Decidere dove morire, se a casa o in ospedale; le disposizioni per il funerale; come scrivere un testamento, comprese le parti sulla custodia di figli e animali domestici; come scegliere i beneficiari dell’eredità. E la pressione di dover comunicare queste cose ai propri familiari.

Ardati si è accorta che, verificando in anticipo le ultime volontà di una persona, parte di quest’ansia scompare: “Spesso si scopre che la persona in punto di morte è in pace con l’idea della propria fine ma il coniuge o i figli faticano ad accettarlo”.

Ha cominciato a chiedersi perché tante persone erano in ansia per la fine della vita. Si è resa conto che il loro malessere era legato alla burocrazia la Germania

Nel 2017 si è iscritta a un corso di formazione per doula della morte e ha capito come dare il giusto sostegno in quelle situazioni: “Al momento finale rimangono molte cose non dette, che possono portare ad anni di rimpianti”.

Secondo l’associazione Inelda, i servizi offerti dalle doula sono poco sfruttati nel mondo. “Tutti moriamo. Tutti, quindi, potrebbero trarre beneficio dall’esperienza offerta da una doula di fine vita”, spiega la responsabile dello sviluppo del programma dell’Inelda, Christy Moe Marek. “La nostra speranza è che più persone di origini diverse seguano una formazione che le prepari a questo ruolo così speciale, e che diventino delle pioniere di quest’attività nelle loro comunità”.

È proprio quello che ha fatto Ardati. Ha scelto di lavorare per la comunità musulmana proprio perché pensa che si debba fornire sostegno e cure in base alle particolarità culturali di ogni persona.

Secondo lei sono importanti le piccole cose: per esempio far ascoltare il Corano o aiutare i morenti a fare le tayammum, le abluzioni per la preghiera che si fanno senza l’acqua e che possono risultare sgradevoli per la pelle. Deve anche trovare un equilibrio tra le idee delle famiglie musulmane, spesso convinte che basterà pregare per far guarire un malato, e l’invito a lasciar partire il proprio caro senza sentirsi di averlo abbandonato. “È importante capire che ogni vita ha un inizio e una fine, e che le persone non possono vivere per sempre”, dice Ardati.

Un processo naturale

La doula aiuta i clienti e i loro familiari a individuare i segni della morte imminente, come “il cambiamento nella respirazione, il rifiuto di mangiare o bere, periodi più lunghi di sonno profondo e periodi più brevi di veglia, o il cambiamento del colore e della consistenza della pelle”. Sono segni a cui la maggior parte delle persone non è abituata. “Ho passato un sacco di tempo a spiegargli che è un processo naturale”, racconta Ardati.

Nell’ultimo secolo il nostro rapporto con la morte naturale è cambiato, afferma: “Ormai la morte avviene lontano dagli occhi, lontano dal cuore e oggi molti di questi segni sono diventati per noi inconsueti”.

In passato la fine della vita era un’esperienza intima e familiare. “Nessuno batteva ciglio se in casa un familiare voleva lavare e vestire un corpo in vista del funerale”. Ma poiché la morte è diventata un processo medico, per molti è anche una cosa sterile, estranea. “Questo produce conseguenze devastanti. Perché non sappiamo che aspetto ha, che suono produce, quali sono i suoi effetti, e questo genera grande paura e ansia. Oggi la morte avviene in ospedale o nelle case di cura, dove il 70 per cento di noi finirà i suoi giorni. In realtà, se ci venisse data la possibilità, la stessa percentuale di persone preferirebbe morire a casa sua”.

Biografia

Anni ottanta Nasce a Sydney, in Australia. È figlia di immigrati libanesi. Fin da bambina è appassionata di ginnastica e culturismo.
2004 Dopo un incidente quasi mortale, abbandona la palestra per sole donne che stava gestendo e diventa organizzatrice di funerali musulmani. Va alla Mecca in pellegrinaggio.
2017 S’iscrive a un corso di formazione per doula della morte e decide di lavorare con la sua comunità, quella musulmana.


Essere preparati può portare a una “buona morte”, un’idea sostenuta dal movimento per una morte positiva, e anche da alcuni musulmani, che pregano per avere un husnal khatam, un buon fine vita. “Siamo consumati dall’idea di vivere una ‘buona vita’, ma spesso dimentichiamo che dovremmo prepararci a una ‘buona morte’: la fine della nostra esperienza terrena è l’inizio di quella nuova, e dobbiamo ricordarcelo”, dice la doula. Ardati incoraggia le persone a cominciare a parlare dei loro progetti di fine vita quando sono ancora in salute.

Grazie ai suoi laboratori sulla morte, in cui insegna alle persone come sostenere i loro cari nel momento della fine, e ai suoi Death cafes (Caffè della morte), online a causa del covid-19, ha notato che stanno aumentando le persone, soprattutto giovani, interessate al suo settore e a come potrebbe svolgersi la loro morte.

Le domande d’iscrizione ai Death cafes, che di solito si svolgono una volta all’anno, sono aumentate, forse proprio in seguito alla pandemia: “Il lato positivo del covid-19, da quel che vedo, è che ha fatto nascere un desiderio di conoscere meglio la morte”. Anche se si occupa di un argomento che la maggior parte delle persone fatica ad affrontare, Ardati ne parla in modo vivace. Essere a contatto con la morte non la turba: “I nostri corpi torneranno sempre alla terra da cui veniamo, che sia attraverso una lunga malattia o una scomparsa improvvisa. Qualunque sia il cammino, porta allo stesso posto”.

Alcune settimane dopo, la donna con tre figli di cui Ardati si occupava è morta. Il suo respiro ha cominciato a rallentare, ha passato più tempo addormentata che sveglia ed è morta in casa, molto dolcemente, come aveva sperato.

Riconoscendo i segni, alcuni giorni prima la doula aveva cominciato una veglia al suo capezzale. Era presente quando è morta, alle tre del mattino. Le ha chiuso le palpebre e la bocca prima dell’arrivo del rigor mortis. Ha rimosso i cuscini supplementari che la donna aveva dietro la schiena e l’ha sdraiata sul letto, rimuovendo con delicatezza le cannule che aveva nel corpo. Poi ha recitato alcuni passaggi del Corano, per favorire, secondo il suo credo, la transizione dell’anima nell’aldilà.

Il sudario bianco

Quando i figli si sono svegliati alle sei del mattino, prima di farli entrare nella stanza della donna Ardati li ha preparati spiegandogli che la loro madre era morta. Li ha rassicurati dicendogli che ora si trovava in un luogo sicuro e confortevole. Li ha incoraggiati a dirle addio.

Il più colpito è sembrato il figlio di nove anni. “Non sapeva se poteva toccarla. Gli ho detto che poteva sdraiarsi accanto a lei, se voleva. È salito sul letto e si è sdraiato, condividendo lo stesso cuscino. Un’ora e mezza dopo era fuori in sella alla sua bicicletta, ma era necessario che trascorresse quel tempo accanto alla madre, dicendole addio”.

Ardati è stata anche la persona che ha lavato il corpo della donna. Come è tradizione, è stato lavato tre volte: la prima con acqua mescolata con foglie di loto sbriciolate e l’ultima con dell’acqua profumata in cui era stata sciolta della canfora. Poi ha avvolto il corpo in un sudario bianco e ha eseguito i rituali della sepoltura musulmana.

“Ogni morte m’insegna qualcosa, scopro sempre una nuova prospettiva sul mio lavoro. Le persone in fin di vita sono state le mie principali insegnanti e quando mi allontano da loro rifletto sulle lezioni che ho tratto”. E conclude: “È dimenticare che la vita avrà una fine a rendere così difficile morire”. ◆ ff

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati