Pochi giorni prima d’incontrarlo per pranzare insieme, David Nott era a Charkiv, in Ucraina, a curare le vittime degli attacchi dei droni russi. Dopo il nostro incontro è andato in Cisgiordania a insegnare ai medici a suturare vasi sanguigni e viscere. Il lavoro di Nott come chirurgo in zone di conflitto probabilmente ha salvato migliaia di vite. Molti lo definiscono un eroe. Ma l’uomo che sto per incontrare non ha un aspetto da star. È garbato, timido, con gli occhi sgranati, come un coniglio spaventato. Seduto al tavolo, non sembra affatto una persona che ha storie di guerra da raccontare. La sua voce flebile si percepisce appena tra il fracasso della brasserie francese dove ci troviamo.
“Uno dei traduttori a Charkiv mi ha detto: ‘L’unica persona che non sa chi è David Nott sei tu’”, mi dice sorridendo. “E penso che sia vero. A volte guardo quello che ho realizzato, o quello che altri hanno realizzato seguendomi, e non mi sembra opera mia”. Mentre insegna ai colleghi chirurghi si chiede: “Caspita, come faccio a sapere tutte queste cose?”.
Nott ha raggiunto una certa notorietà dopo il 2013, quando è stato testimone in prima persona della brutalità dell’assedio di Aleppo compiuto dal dittatore siriano Bashar al Assad. Il suo libro War doctor. Un medico in trincea (Piemme 2020) è stato un grande successo e racconta la sua ingegnosità sotto il fuoco dei proiettili e le tante occasioni in cui ha sfiorato la morte. Negli ultimi dieci anni attraverso la David Nott foundation si è dedicato a diffondere le sue conoscenze. I suoi collaboratori sono stati tra i pochi sanitari stranieri che hanno avuto il coraggio di andare a Charkiv dall’inizio della guerra. Nel corso della sua ultima visita un drone è caduto a cento metri di distanza da lui, sbalzandolo giù dal letto dell’hotel. Mentre le mitragliatrici ucraine rispondevano al fuoco, Nott aveva “la sensazione terribile che i russi stessero arrivando”.
Quindi stavolta in Ucraina è stato più impegnativo di quanto si aspettava? “Niente affatto. È stato un viaggio fantastico. Alcuni medici che avevo formato tre anni fa sono anche venuti a trovarmi”.
I pazienti, racconta, “arrivavano con enormi lesioni da schegge, avevano buchi ovunque sul corpo. Operavamo giorno e notte persone che erano state colpite dalle granate sganciate dai droni. C’era un uomo con un piede spappolato. In questi casi la cosa più semplice è amputare la gamba. Ma ricostruirla è una cosa straordinaria. C’erano trenta chirurghi in sala operatoria a guardare”. L’operazione consisteva nell’applicare un lembo di pelle della gamba buona su quella danneggiata. In questo modo il piede dovrebbe guarire usando l’afflusso di sangue dalla gamba sana. Le gambe devono rimanere unite, poi “dopo tre settimane si può separare il lembo di pelle e liberare nuovamente l’arto. È chirurgia plastica da seconda guerra mondiale, ma in alcuni casi è la soluzione giusta”.
Vita di campagna
Nott, 69 anni, è attirato dalla guerra per un misto di adrenalina, altruismo e curiosità intellettuale. La sua prima missione umanitaria è stata a Sarajevo nel 1993. È stato ad Haiti, in Darfur e con le truppe britanniche in Afghanistan nel 2010. “Pensavamo che le cose non potessero andare peggio”, dice. Invece, le morti in guerra sono aumentate, soprattutto a Gaza e in Birmania.
Per molti l’orrore è travolgente. Nott riesce ad affrontarlo con compostezza. Nelle zone di guerra bisogna ricucire i pazienti in fretta perché ne arrivano di continuo. Un cameriere con la scritta “stay free” tatuata sulle dita prende il nostro ordine e ci versa dell’acqua frizzate. Vorrei chiedere del vino, ma perdo l’attimo. Poi sono troppo concentrato sulle storie di Nott per averne bisogno.
Suo padre era un medico indiano-birmano, sua madre un’infermiera gallese. A causa del loro lavoro all’inizio lui è stato cresciuto dai nonni nelle campagne del Galles. “Era strano, perché non conoscevo per niente i miei genitori. Mia madre tornava dal suo apprendistato a Newport ogni due tre mesi. La consideravo una persona di famiglia, ma non pensavo fosse mia madre”. Aveva cinque anni, ricorda, quando “ho realmente guardato mio padre per la prima volta pensando: ‘Oddio, quello è mio papà?’”.
Nott mi racconta le raccomandazioni da fare a chi opera nelle zone di guerra: mai guardare qualcuno negli occhi a un posto di blocco
Quando i suoi genitori lo portarono a vivere in Inghilterra, “probabilmente ne restai traumatizzato”, dice. Vent’anni fa una zia gli ha detto che i suoi genitori “in realtà non ti volevano, David”. “È stato un colpo al cuore”. Nott diventò un bambino schivo, che subiva insulti razzisti e a scuola arrancava. Fu bocciato agli esami finali: “Presi voti bassi. Fu terribile”. Quando i compagni gli dissero che era stupido, allora si decise: “Pensavo: dimostrerò alle persone che sono in gamba”. Riuscì ad arrivare all’università, e lì cominciò a eccellere. “Non sono il più brillante del mondo, ma ho umanità e comprensione. Niente mi riesce facile”. Arrivano i nostri piatti.
L’istinto umanitario di Nott risale al 1984, quando era specializzando e vide il film Urla del silenzio. Tecnicamente era un bravo chirurgo vascolare, ricorda un suo ex collega, ma quello che lo contraddistingueva era la sensibilità. Non aveva l’ego tipico dei chirurghi. Quando partiva per le missioni all’estero, dava il meglio di sé di fronte alla varietà delle situazioni e alla necessità d’improvvisare. Si è trovato a fare interventi che a malapena conosceva. Una volta nella Repubblica Democratica del Congo ha amputato anca e gamba seguendo le istruzioni di un collega di Londra inviate tramite messaggi sul telefono.
Nott ha dimostrato anche un incredibile coraggio. Nel 2014 a Gaza stava per operare una bambina di sette anni quando gli hanno detto che l’ospedale sarebbe stato bombardato da lì a cinque minuti. Lui e l’anestesista si sono rifiutati di andare via e hanno salvato la vita della bambina. Ha prestato assistenza a chiunque avesse bisogno di lui: da un combattente dell’Isis in Siria alle ragazze incinte del Darfur vittime degli stupri usati come arma di guerra.
La Siria, dove sono morti tanti bambini, è stata un momento buio. Come ha superato il disturbo da stress post traumatico? “Non lo superi mai. Ma la cosa che ti permette di andare avanti è essere attivo. Molte persone che soffrono di disturbo da stress post traumatico e finiscono per suicidarsi non fanno altro che mettersi a fissare un muro e pensare a quello che gli è successo”. E prosegue: “Avere il disturbo da stress post traumatico è come attraversare l’inferno, ma tu devi solo andare avanti. Puoi farti curare, puoi parlare con altri, ma la persona che ti aiuta più di tutte sei tu stesso”.
Le zone di guerra cambiano, così come le sfide per i medici. I lacci emostatici possono fermare le emorragie, ma vanno applicati solo per un massimo di sei ore prima che i muscoli comincino a morire. In Ucraina alcune persone con i lacci emostatici non possono scappare perché i droni le aspettano per ucciderle. “Lì hanno la sindrome da laccio emostatico, perché è stato applicato per più di sei ore, e tutte subiscono amputazioni alte del braccio o della gamba”. Riflette sulla possibilità di mettere al bando i droni, come i proiettili a espansione furono vietati nel 1929. Ma “lo stato di diritto in guerra non c’è più. Anche se venissero proibiti i droni, non importerebbe a nessuno”.
Cinque gradi sotto zero
A Gaza è anche peggio. Dopo una missione a Rafah all’inizio del 2024, Nott ha descritto Gaza “una zona di guerra diversa da qualsiasi altra”, citando come esempio la mancanza di antibiotici orali. Si è dimenticato di dirmi che ci è quasi morto. “Ho preso una polmonite. Avevo un’infezione molto seria, non riuscivo nemmeno a salire le scale”. Era in una casa in cui le finestre erano esplose. “C’erano forse cinque gradi sotto zero, e il vento entrava. Non riuscivo a respirare. Non trovavo gli antibiotici giusti. Avevo le labbra blu. Pensavo: ‘Forse sto per morire’”. Quel giorno sua moglie “ha dato di matto” e ha telefonato a “chiunque le venisse in mente”. È stato riportato a casa attraverso l’Egitto. “Sono stato fortunato”. In quel periodo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sosteneva che a Gaza le malattie potevano uccidere più dei bombardamenti. “Devi avere una mente e un corpo robusto per andare in zone di guerra. Io non ho più il fisico di una volta”.
L’esperienza permette a Nott di suggerire ai medici che a volte, in mancanza di risorse, è meglio rinunciare a intervenire invece di farlo male. A Gaza, per esempio, non avrebbe alcun senso ripetere una ricostruzione del piede come a Charkiv, perché il paziente deve restare immobilizzato per tre settimane: “Se dovesse essere portato via in fretta e furia, morirebbe”.
◆ 1956 Nasce a Carmarthen, nel Regno Unito.
◆ 1981 Si laurea in medicina all’università di Manchester.
◆ 1993 Va a Sarajevo per la sua prima missione umanitaria.
◆ 2013 Forma studenti di medicina per la chirurgia d’emergenza ad Aleppo, in Siria.
◆ 2015 Crea la David Nott foundation.
◆ 2022 Si reca in Ucraina per curare le persone ferite durante l’offensiva russa.
Nott è furioso per gli attacchi alle strutture sanitarie. “Non è solo Gaza. L’ospedale di Charkiv è stato bombardato. La salute è usata come un’arma di guerra: se distruggi un ospedale, privi decine di migliaia di persone delle cure, le fai soffrire di più e le costringi a cercare di andar via. La convenzione di Ginevra stabilisce che tutti gli ospedali dovrebbero essere protetti. Ogni essere umano ha bisogno di aiuto quando è ferito, non importa da che parte sta”.
Nott a quest’ora avrebbe potuto benissimo essere morto, ma continua a viaggiare in zone di guerra, a pilotare aerei (è appassionato di aviazione), a sciare e ad andare in sella alla sua bicicletta Brompton in giro per Londra. “Bisogna correre dei rischi calcolati. Se non te ne prendi nessuno, non fai niente. Questo è il mio motto”. Credere in dio lo aiuta? S’interroga spesso ad alta voce su scienza e fede, il big bang, la luce nell’oscurità. “Tutti abbiamo bisogno di appartenere a qualcosa, non è così? Essere religiosi è una cosa bella. Io vado ogni domenica alla chiesa gallese. C’è sempre bisogno di qualcuno che badi a te. Quando tua madre e tuo padre non ci sono più, a chi altro ci si può rivolgere se non a dio? Stai pensando che sono un po’ pazzo?”. In realtà no.
Nel 2014, mentre l’ospedale di Gaza stava per essere bombardato e lui pensava che sarebbe morto, Nott ha trovato la forza di scrivere un’email a una ricercatrice con cui tempo prima aveva avuto un piacevole incontro.
In seguito Elly è diventata sua moglie, e ha messo in piedi la David Nott foundation, che oggi gestisce. Hanno due figlie piccole. Cosa dice alle bimbe quando parte? “Dico: ‘Voi mi state permettendo di andare ad aiutare le persone. Potreste starvene lì a piangere e dirmi ‘Papino, non andare’. Ma non lo fate”. Le ha educate a pensare che “la cosa migliore che si possa fare nella vita è aiutare qualcun altro”. Si commuove. “Che mi è successo?”.
Non sa se correrebbe di nuovo gli stessi rischi del passato. La fondazione è il suo strumento per fare formazione. L’anno scorso le entrate sono quasi raddoppiate arrivando a tre milioni e mezzo di sterline. “Ormai faccio raramente dichiarazioni politiche, perché questo comprometterebbe la fondazione”. È una persona umile, ma sicura di sé. Quando ci sono medici dubbiosi che mettono in discussione i suoi metodi, risponde: “Ok, dimmi come lo faresti tu e io ti dico perché è sbagliato’”.
Durante il giorno Nott lavora come chirurgo consulente all’ospedale St. Mary di Londra per l’Nhs, il servizio sanitario nazionale britannico. Anche questo impiego per lui è una fonte di stress. “Dopo aver operato qualcuno mi sveglio alle quattro del mattino e controllo il telefono, perché mi aspetto il peggio. Quando qualcosa va storto, soffro molto”.
Ha intenzione di continuare a lavorare il più a lungo possibile. Ma dove? La caduta del regime di Assad in Siria “è la notizia migliore che io abbia mai ricevuto. Ma ho quasi la sensazione di aver ormai fatto la mia parte”. Per i siriani è tempo di portare avanti il suo lavoro, per lui è tempo di rivolgersi altrove. “Quella della Birmania, per esempio, è una guerra dimenticata”. Quest’anno per la prima volta vuole andare lì, nel paese dov’è nato suo padre.
L’ottimismo dei bambini
Gli altri tavoli si sono riempiti e poi di nuovo svuotati, ma Nott sembra non avere fretta. Mi racconta quali raccomandazioni fa a chi opera nelle zone di guerra: mai guardare qualcuno negli occhi a un posto di blocco. Non fare mai foto tranne quelle per scopi medici. I colleghi spesso gli mandano messaggi su WhatsApp e gli chiedono consigli sui casi che seguono.
Dico a Nott che uno dei suoi amici l’ha definito ingenuo come un bambino. “Credo di non essere mai cresciuto”, dice ridendo. “Questa è geniale, me la devo ricordare. Un bambino è sempre ottimista, no?”.
Mentre tira le cinghie del suo zaino e si prepara per andare via, mi rendo conto di avere di fronte un uomo che ne ha viste di ogni colore ma non si è fatto intimorire. Ha fatto scelte che può difendere. Perciò non ha bisogno di scindere tra il bene e il male. “Alcune persone stanno vivendo momenti terribili. È bello rendersi conto che qui stiamo passando del tempo piacevole. Se vivi in una situazione tragica e hai gli incubi, è perché stai pensando troppo a te stesso. Piangersi addosso non servirà ad aiutare gli altri”. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati