Il generale iraniano Qassem Soleimani è morto e le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran sembrano essersi placate. Ma lo scenario che Soleimani ha contribuito a costruire è ancora un problema per Washington. Da quando il generale è stato ucciso da un drone statunitense il 3 gennaio, gli esperti si sono affrettati a spiegare perché contasse tanto per le ambizioni iraniane e quali saranno le conseguenze della sua morte per la regione. La sintesi è che era l’unico uomo in grado di padroneggiare il nuovo scenario mediorientale.

La particolare abilità di Soleimani consisteva nel controllare i cosiddetti “attori non statali”, una definizione asciutta che in Medio Oriente si riferisce a varie e turbolente milizie, ai gruppi religiosi e alle forze tribali che di fatto esercitano il potere in gran parte della regione. L’importanza di questi gruppi è cresciuta molto negli ultimi vent’anni, mandando in confusione i diplomatici e la politica tradizionale, e Soleimani non solo li ha sfruttati, ma li ha rafforzati nell’interesse dell’Iran. La sua assenza potrebbe aiutare gli Stati Uniti nell’immediato, ma mostra anche quanto sia profonda la sfida che la regione rappresenterà nel prossimo futuro, e il motivo per cui gli avversari di Washington (come l’Iran o la Russia) hanno ancora un vantaggio significativo e imprevedibile nell’esercitare il potere.

Teheran, 5 gennaio 2020 (Th​e New York Times/Contrasto)

Per chi ragiona di relazioni internazionali in termini di governi e capi di stato può essere difficile comprendere quanto poco contino a volte in alcune parti del Medio Oriente. Negli ultimi quarant’anni quasi tutte le istituzioni della regione sono state trasformate in modo da indebolire il tradizionale sistema di potere statale.

Negli anni ottanta l’islam, nelle sue varianti sciita e sunnita, si spaccò lungo linee tradizionali e rivoluzionarie. La rivoluzione del 1979 in Iran entusiasmò gli islamisti in tutta la regione; le guerre civili in Libano e in Siria, la sollevazione islamista contro i sovietici in Afghanistan e la guerra tra Iran e Iraq consolidarono la presa dei gruppi armati al di fuori del controllo dei governi. Queste tendenze storiche e ideologiche si sono accelerate dopo che l’invasione statunitense dell’Afghanistan e dell’Iraq ha disintegrato le strutture di governo in quei paesi rispettivamente nel 2001 e nel 2003, e sono state alimentate anche dalle rivolte popolari dilagate nella regione nel 2011, che hanno abbattuto o indebolito i governi.

Equilibrio precario

La crescita di queste nuove forze difficili da controllare è stata stupefacente: oggi si stima che il numero totale di miliziani islamisti sunniti sia circa il quadruplo rispetto all’11 settembre 2001. Solo in Siria e in Iraq ci sono tra i 50mila e gli 85mila combattenti, senza considerare il numero notevole di gruppi sciiti, curdi e altri che controllano alcune zone dei due paesi.

Di conseguenza, il Medio Oriente moderno è un equilibrio in costante movimento tra i regimi formali nelle capitali e le milizie e le forze locali che controllano gran parte del territorio. In alcuni momenti Hezbollah, la milizia libanese alleata dell’Iran, ha avuto più influenza del governo di Beirut. Per un periodo il gruppo Stato islamico (Is) ha riscosso le tasse nelle zone della Siria e dell’Iraq sotto il suo controllo, mentre i curdi amministrano una regione in gran parte autonoma nel nord dei due paesi. A un diplomatico o a uno stratega tradizionale questo scenario complesso può apparire caotico e ingestibile. Per Soleimani era stato un’opportunità.

Alla guida della potente unità di guerra non convenzionale nota come forza Quds, e grazie alle sue connessioni con una rete di capi di milizie, Soleimani era diventato la persona più capace di gestire la complessa combinazione di poteri statali e non statali che oggi governa il Medio Oriente. La sua forza ha consentito all’Iran di riuscire dove i rivali regionali e internazionali avevano fallito.

Prima dell’ascesa di Soleimani alla fine degli anni novanta, la superiorità iraniana in termini di guerra per procura era nata innanzitutto per necessità. La guerra con l’Iraq aveva spinto il nuovo regime di Teheran a creare una divisione per gestire le operazioni all’estero. Negli anni novanta l’Iran aveva vaste risorse e reti nella regione e un “prototipo” costituito da Hezbollah, il movimento sciita alleato di Teheran emerso durante la guerra civile libanese. Soleimani non doveva far altro che replicare il modello di Hezbollah su scala regionale, ma per riuscirci non sarebbero bastate competenze e pazienza. Aveva bisogno di un’occasione, che arrivò nel 2003.

La guerra in Iraq rovesciando Saddam Hussein rimosse un tiranno dal potere, ma smantellando le sue istituzioni di controllo offrì anche ai gruppi e ai partiti militanti lo spazio per sostituirlo lentamente. Molti dei gruppi che emersero erano capeggiati da islamisti sciiti i cui legami con Teheran si erano forgiati durante la guerra tra Iran e Iraq. I loro sostenitori davano all’Iran un’influenza sulla base, mentre i loro leader detenevano un potere ufficiale o semiufficiale nel governo iracheno. Il ministero dell’interno diventò una roccaforte dell’organizzazione Badr di Hadi al Ameri; Abu Mahdi al Muhandis prese la guida delle Forze di mobilitazione popolare, una coalizione creata dopo l’ascesa dell’Is per organizzare tutti i gruppi armati dell’Iraq sotto un unico comando, che in seguito è diventato formalmente parte delle forze armate. Non c’è dubbio su quanto Soleimani lavorasse a stretto contatto con questi leader: Al Muhandis è una delle persone rimaste uccise insieme a lui all’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio.

La conquista da parte dell’Is di un terzo dell’Iraq nel 2014 ha creato un’ulteriore opportunità per Soleimani di aiutare gli alleati dell’Iran a consolidare il loro controllo su tutto l’Iraq, anche nelle zone curde e sunnite. In Siria ha usato il conflitto nel 2011 e la stretta relazione dell’Iran con il regime di Damasco per mobilitare una legione di combattenti stranieri, creando delle milizie che hanno giocato un ruolo chiave nel difendere Bashar al Assad da un’enorme ribellione. Questo processo potrebbe essersi interrotto con la sua morte, e resta da vedere se il suo successore sarà in grado di radicare la presenza degli alleati dell’Iran in Siria.

Mentre Teheran costruiva la sua influenza attraverso gruppi non statali, altri paesi si sforzavano di eguagliarne il successo. La Turchia, sulla carta un paese molto più potente, nel 2011 in Siria ha avuto la stessa occasione che l’Iran aveva avuto in Iraq nel 2003, cioè riempire il vuoto lasciato da una caotica guerra civile in un paese vicino. La Turchia ha immense risorse militari ed economiche e poteva contare sul supporto di gran parte dei suoi alleati regionali e internazionali per indebolire il regime alawita di Damasco. Così ha sostenuto centinaia di milizie nella Siria a maggioranza sunnita, ma tranne poche eccezioni non è stata in grado di creare un potere duraturo sul campo o di stabilire alleanze profonde con attori non statali. Nel 2016 la Turchia ha sostanzialmente abbandonato questo tentativo, allineandosi con Mosca sulla Siria, indirettamente a favore del regime.

Neanche l’Arabia Saudita ha avuto successo proprio perché non aveva gli strateghi o gli esperti tattici in grado di coltivare pazientemente relazioni per competere con l’Iran. I sauditi sostennero salafiti e jihadisti negli anni ottanta ma non avevano le capacità specifiche per costruire relazioni di lungo termine con attori non statali.

Tra gli alleati degli Stati Uniti l’unica analogia con l’Iran è il Qatar, che ha coltivato legami con attori non statali appartenenti a un ampio spettro di tendenze politiche e religiose in tutta la regione. Ma Doha sembra interessata più all’influenza e al soft power che a una vera e propria guerra per procura. Altri alleati sono fuori dai giochi: l’Egitto dalla rivolta per la democrazia del 2011 si è concentrato su se stesso, e Israele è visto per lo più come un nemico dai paesi vicini, e non ha potenziali alleati non statali al di fuori dei suoi confini.

La strada da seguire

Così nel crescente e lucroso mercato degli attori non statali l’Iran è stato un imprenditore scaltro e senza veri concorrenti. La morte di Soleimani priva il regime di un agente esperto ed è certamente un brutto colpo per le ambizioni di Teheran di rafforzare ulteriormente la sua posizione nella regione, almeno nell’immediato futuro. Ma l’Iran ha una superiorità consolidata nell’area, e può ancora sfruttarla, soprattutto se non ci saranno concorrenti.

Con i governi centrali ancora in difficoltà, c’è da aspettarsi che gli attori non statali rimarranno una caratteristica fondamentale dello scenario regionale. In alcuni paesi, soprattutto quelli che hanno attraversato trasformazioni politiche, come Libia, Afghanistan e Yemen, potrebbero anche dominare il potere politico per un periodo.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, nessun aiuto militare ed economico stabilizzerà la regione, senza che siano prima riconosciute le lezioni dell’ascesa di Soleimani. In un certo senso le politiche statunitensi e la scaltrezza di Soleimani hanno costruito insieme questo mondo: Washington ha creato i vuoti, mentre Soleimani aveva le risorse per riempirli. Tuttavia, c’è ancora spazio per gli Stati Uniti per migliorare la situazione e consolidare una forma d’influenza più positiva. Nonostante le critiche, gli Stati Uniti hanno dedicato risorse più che sufficienti alla ricostruzione degli stati in posti come Afghanistan e Iraq. Ciò che manca è la capacità di destreggiarsi come faceva Soleimani: di parlare la lingua degli insorti tenendo allo stesso tempo le chiavi della cassa di uno stato.

Per gli Stati Uniti e altri paesi che hanno investito nella sicurezza della regione le tendenze dovrebbero essere chiare. La strada da percorrere è sostenere governi stabili e legittimi, e costruire gradualmente in paesi disgregati istituzioni che possano essere integrate in quei governi dopo la stabilizzazione. Anziché pagare dei cattivi per combattere altri cattivi, un ruolo costruttivo potrebbe consistere nel rafforzare gli attori locali moderati per riempire il vuoto crescente in ampie aree del Medio Oriente.

Uno dei problemi per Washington è che i suoi avversari hanno tutti i motivi per mantenere l’instabilità: paesi come l’Iran e la Russia sono profondamente legati alle milizie locali, che garantiscono la loro influenza. Un altro problema è che spesso le politiche di Washington ignorano le tendenze di fondo potenzialmente utili per i suoi obiettivi. Per esempio a ottobre Trump ha tolto il terreno sotto ai piedi dei gruppi curdi che hanno cacciato l’Is da un terzo della Siria, annunciando l’improvviso ritiro statunitense dal paese e permettendo alla Turchia di avanzare. Anche se poi Trump è tornato sui suoi passi, quel messaggio ha ridotto la credibilità degli Stati Uniti. Contribuire a risolvere il problema richiederà non solo investimenti e lungimiranza, ma anche coerenza. ◆ fdl

Hassan Hassan è un giornalista statunitense di origini siriane. Dirige il programma del Center for global policy di Washington che si occupa di attori non statali. Nel 2015 insieme a Michael Weiss ha pubblicato il libro Isis: Inside the army of terror.

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Questo articolo è uscito sul numero 1341 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati