Avevo cinque anni la prima volta che arrivai a Tashkent. Avevo accompagnato mia madre in visita ai parenti nella città vecchia, che conservava un aspetto e un’atmosfera con secoli di storia. Nel mio romanzo The railway (1997), tradotto in inglese da Robert Chandler, ho descritto il mahalla (quartiere) dove viveva mia zia: “La cosa più emozionante erano le bolohana, le terrazze delle mansarde, adiacenti ai tetti di lamiera delle case vicine. Quando ci camminavi sopra a piedi nudi la lamiera faceva un rumore sferragliante, ti suonava sotto i piedi. Dovevi stare attento a non calpestare i giunti sporgenti. Il dolore era terribile perché il calore si accumulava sui giunti di metallo e tagliava senza pietà come la lama di un rasoio le piante dei piedi. Quando finalmente arrivavi all’ombra dell’albero di gelso del vicino, nemmeno il metallo fresco riusciva a lenire il dolore di quella linea pulsante che ti attraversava il piede. Seduto sull’albero osservavi la moltitudine di tetti della città vecchia e ascoltavi da un altoparlante la voce lontana e pigra della radio che arrivava a ondate a causa del caldo che deformava l’aria bianca e luminosa”.

Questo succedeva prima del 1966, l’anno in cui Tashkent fu colpita da un devastante terremoto che distrusse gran parte della città ma non il centro storico, dove viveva la mia famiglia. Dopo quella tragedia la città attorno al mahalla cominciò a trasformarsi in una delle metropoli più cosmopolite dell’Unione Sovietica. Da tutte le repubbliche arrivò gente armata di betoniere e macchine edili a offrire il suo aiuto per la ricostruzione. Persone di etnie diverse, dai georgiani ai coriachi, si mischiarono con gli uzbechi, creando relazioni variopinte. Molti dei nuovi arrivati si stabilirono nell’assolata Tashkent. In seguito i nazionalisti hanno criticato “quell’afflusso di decine di lingue straniere”, ma crescendo ho capito che anche la cultura nazionale più caratteristica si sviluppa in modo più produttivo quando viene impollinata da altre culture.

Una poltrona per leggere

La mia gioventù creativa a Tashkent ha coinciso con gli anni della “stagnazione” di Leonid Brežnev, quando era permessa solo l’arte ufficiale. A 23 anni, nel 1977, scrissi una sinfonia poetica intitolata Lorkiana. Nella mia giovane mente ambiziosa quell’opera rappresentava la sintesi di tutte le forme d’arte, oltre che un incontro tra oriente e occidente. Naturalmente non mi era permesso eseguirla da nessuna parte. All’epoca c’era un cinema, il Pioniere, che in modo semiclandestino proiettiva film girati da registi che erano contro il sistema come Andrej Tarkovskij e Andrzej Wajda. Con l’aiuto del direttore del teatro Ilkhom, il leggendario Mark Weil, io e i miei amici riuscimmo a organizzare una finta proiezione acquistando tutti i biglietti (spesi il mio intero stipendio mensile come tecnico part time, 70 rubli), e al posto del film recitai la mia sinfonia poetica, decadente e dissidente.

Oltre a quel cinema, quando ero studente di biologia c’erano altri luoghi dove incontrare gli amici. Ogni volta che andavo alla biblioteca Navoi, dopo aver terminato le mie letture mi spostavo al bar accanto all’hotel Tashkent. A volte, mentre aspettavo, entravo nell’albergo, salivo qualche piano e mi lasciavo cadere su una delle lussuose poltrone. La chiamavo “utopia” (dal russo “utopat”, sprofondare). Me ne stavo seduto lì a leggere o scrivere poesie. Uno degli ultimi piani ospitava un bar dove i creativi e le stelle nascenti di Tashkent sorseggiavano vino locale e birra cecoslovacca. Spesso andavo in cerca di altre poltrone su cui leggere o scrivere, come quelle nel seminterrato del vicino museo Lenin, sistemate accanto al guardaroba. Lì, all’ombra della statua di Lenin, scrivevo annotazioni sui libri che raccontavano di Tamerlano il conquistatore.

Quando ritrovavo i miei amici per pranzo camminavamo ancora un po’ verso il teatro Kukolnyi, davanti al Palazzo del governatore generale russo, fino a un negozio di ravioli in una struttura che era stata la cappella di un palazzo. Lì banchettavamo per quindici copechi a porzione (quasi nulla), venti se volevamo anche un bicchiere di panna acida. Dopo mangiato ci spostavamo immancabilmente al bar su via Karl Marx, che dopo la caduta dell’Unione Sovietica diventò famosa come una sorta di Broadway locale.

Il più delle volte, comunque, io e i miei amici c’incontravamo nella piazza della Rivoluzione, nel fitto parco creato durante l’occupazione zarista negli anni sessanta dell’ottocento e pieno di alberi, poi tagliati dopo l’indipendenza.

Stavamo lì, all’ombra dei platani secolari, poi bevevamo caffè in un bar dietro al gigantesco hotel Uzbekistan, dalla forma di un libro aperto. Passavamo intere giornate tra caffè, sigarette, il settimanale sovietico Za rubezhom (che conteneva articoli della stampa internazionale), e la sede del sindacato degli scrittori, dall’altra parte della strada, dove andavamo a usare i bagni.

La modernizzazione

Purtroppo oggi non resta molto della Tashkent che conoscevo. Il cinema Pioniere e il parco adiacente sono stati eliminati nel 1991 per far posto al palazzo presidenziale. I platani secolari di piazza della Rivoluzione sono stati abbattuti (si dice che l’ex presidente Islam Karimov temesse che i terroristi islamici li usassero per nascondersi), mentre il negozio di ravioli nella vecchia cappella è stato raso al suolo e coperto d’asfalto. Perfino l’imponente edificio coloniale del sindacato degli scrittori ha subìto un intervento di modernizzazione e oggi è affittato come spazio per uffici. Gli uzbechi sono gente da case d’argilla, non da palazzi di pietra: con il passare di ogni generazione, come fosse una regola inviolabile, le case cambiano radicalmente, comprese quelle della moderna Tashkent. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica molti hanno deciso di lasciare Tashkent e l’Uzbekistan, e la città e la popolazione hanno perso molto in varietà. Per questo motivo ho deciso di conservare la memoria della mia Tashkent nei miei pensieri, nelle mie parole e nei miei libri.

L’ultima volta che sono stato in città era il 1 marzo 2017. Quel giorno le autorità uzbeche mi hanno espulso come persona non grata a causa delle mie opere e della mia attività giornalistica, spesso critiche nei confronti delle autorità. Quindi quello che so sulla Tashkent di oggi viene dalle notizie online, dalle telefonate occasionali con i miei parenti e dagli amici che ho ancora lì, sempre meno numerosi. Come disse il grande poeta persiano medievale Saadi, “non ci sono altri rimasti, mentre altri ancora sono molto lontani”.

Certo, Tashkent ha ancora cose nuove e interessanti da offrire, con i suoi bazar e i rivenditori di shish kebab, con la sua gente accogliente. Ma mi dicono che molti mahalla della città vecchia, così preziosi per me fin dall’infanzia, sono stati demoliti e sostituiti dai maestosi ma quasi vuoti grattacieli di Tashkent City, un centro finanziario che dovrebbe scuotere la stagnante economia del paese. Dicono che esiste ancora il teatro Ilkhom, il primo teatro indipendente dell’Unione Sovietica, fondato nel 1976, anche se l’ex direttore Mark Weil è stato assassinato in circostanze poco chiare nel 2007. Dicono che la vita letteraria sopravvive in case e musei, dove continuano le serate di poesia e perfino i “duelli poetici” tra i giovani. Ma Tashkent è una città che non conosco più. Si è persa dentro di me. Come ho scritto in una delle mie poesie:

E stavolta quello che dico

non ha senso…

ancora lo stesso posto,

la stessa pioggia, la stessa palude di fango,

gli stessi tetti, lo stesso panorama,

la stessa triste reputazione,

i pantaloni appesi ai fili che non

[si asciugano,

la stessa scelta,

emozione, come se fosse legata

[a questo spazio,

o piuttosto lo stesso pensiero,

e non il pensiero, ma un dubbio

[amaro e affilato,

legato a questo spazio:

se lo spazio torna ma il tempo non lo fa,

allora la tristezza che ha dato il nome a

[questo refolo cos’è che continua

a cercare nell’intervallo? ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati