L’aumento delle tensioni tra Israele e Palestina negli ultimi giorni è in primo luogo il risultato di una serie di scelte del governo israeliano. Anche se simili violenze non sono certo inedite nella regione, e sono parte integrante delle politiche oppressive di Israele da decenni, si tratta di scelte che di fondo servono gli interessi del primo ministro Benjamin Netanyahu, che sta disperatamente lottando per salvare la sua carriera politica ed evitare di finire dietro le sbarre.

La prima di queste scelte pericolose è stata fatta all’inizio del Ramadan, il mese sacro per i musulmani, quando le autorità israeliane hanno preso l’incomprensibile decisione di mettere nuovi posti di blocco improvvisati all’ingresso della porta di Damasco, nella città vecchia di Gerusalemme. Poi hanno attaccato i palestinesi che si riunivano lì per godersi la fine del digiuno quotidiano insieme ad amici e familiari. Ci sono volute due settimane di violenze della polizia e una decisa risposta dei manifestanti palestinesi perché le autorità facessero marcia indietro.

Nel frattempo la ripresa delle manifestazioni settimanali e delle veglie quotidiane nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, in segno di protesta contro l’espulsione forzata di alcune famiglie palestinesi che vivono lì, ha scatenato la reazione della polizia contro abitanti e manifestanti, senza distinzione. Gli agenti hanno intensificato le violenze in un quartiere diventato un importante simbolo delle espropriazioni ai danni dei palestinesi.

A Sheikh Jarrah, Israele sta cercando di riportare in mani ebraiche dei terreni che, secondo alcuni gruppi di coloni, erano di proprietà di ebrei prima del 1948. Per farlo sta espellendo le famiglie palestinesi che possedevano terreni in quella che nel 1948 diventò Israele, senza però permettergli di rivendicare i terreni persi durante la nakba (la catastrofe palestinese). È difficile trovare una forma più sfacciata di discriminazione razzista.

Nel luogo più sacro

Negli ultimi anni i lanci di pietre e gli scontri intorno alla moschea Al Aqsa sono diventati frequenti nel periodo del Ramadan. Spesso finiscono presto, con la polizia che decide di lasciare che le proteste si esauriscano. Stavolta invece le forze dell’ordine hanno scelto di ricorrere a una violenza eccessiva, ferendo più di trecento palestinesi sul Monte del tempio o Haram al sharif negli ultimi giorni. Tra i feriti ci sono vari giornalisti, come Faiz Abu Rmeleh, esponente del collettivo Activestills che scrive su +972 Magazine, colpito da proiettili con punta di gomma e picchiato dalla polizia.

Ma la violenza non è finita qui: alcuni agenti sono entrati nella moschea Al Aqsa lanciando granate stordenti contro i palestinesi all’interno. L’impatto simbolico di vedere dei poliziotti armati che corrono sui tappeti da preghiera e attaccano i fedeli in uno dei luoghi più sacri dell’islam, e durante il mese più sacro, è risultato chiaro a tutti. E questo non sarebbe potuto succedere senza che qualcuno prendesse la decisione di intraprendere azioni così estreme.

Quando i cittadini palestinesi di Israele hanno organizzato degli autobus per andare a pregare ad Al Aqsa e proteggerla, le autorità hanno risposto chiudendo le strade numero 1 e 443: di fatto hanno impedito a migliaia di musulmani che stavano digiunando di raggiungere Gerusalemme per esercitare la loro libertà di culto. Inoltre hanno lanciato granate stordenti contro chi continuava ad avanzare nonostante gli ordini contrari. La polizia ha spiegato che voleva evitare l’ingresso in città di venti potenziali “istigatori”. Perfino la stampa israeliana tradizionale, spesso felice di riprendere la retorica ufficiale del governo, ha espresso dei dubbi sulla validità di quest’affermazione.

E come se non bastasse, il mese scorso gli estremisti di destra dell’organizzazione razzista Lehava sono apparsi a Sheikh Jarrah, alla porta di Damasco e nel centro di Gerusalemme. Avevano il sostegno di Itamar Ben-Gvir, un parlamentare kahanista (seguace del rabbino estremista Meir Kahane), e del vicesindaco di Gerusalemme, Aryeh King, che la scorsa settimana ha pubblicamente augurato la morte a un noto attivista palestinese di Sheikh Jarrah.

Possibile e necessario

Due settimane dopo l’inizio delle tensioni a Sheikh Jarrah e alla porta di Damasco, il presidente Abu Mazen ha annunciato il rinvio delle elezioni palestinesi. Il motivo ufficiale è la decisione di Israele d’impedire ai palestinesi di Gerusalemme di partecipare, in violazione degli accordi di Oslo. Eppure quella decisione era stata chiaramente concepita per servire gli interessi di Abu Mazen. Come sostengono molti attivisti palestinesi, era comunque possibile e forse necessario tenere le elezioni nonostante l’esclusione di Gerusalemme.

Anche se si tratta di una questione palestinese, Israele avrebbe potuto agire conformemente agli obblighi previsti dagli accordi di Oslo, rispettando così i princìpi democratici, e consentire ai palestinesi di Gerusalemme di votare. Ha deciso di non farlo e, dopo l’annuncio di Abu Mazen, la polizia ha arrestato alcuni palestinesi che sostenevano la necessità di svolgere le elezioni e che si davano da fare per organizzarle. Anche in questo caso, si è trattato di un’escalation orchestrata da Israele.

Il 10 maggio, durante la famigerata “marcia della bandiera” della giornata di Gerusalemme, i militanti di Hamas hanno lanciato dei razzi verso la città. Israele ha deciso di rispondere al lancio attaccando Gaza, uccidendo almeno venti persone, tra cui nove bambini. Il governo ha annunciato che l’operazione militare sarebbe durata “giorni, non ore”. Netanyahu ha aggiunto che avrebbe “imposto un pesante tributo” a Gaza. Anche questa è stata una scelta. Naturalmente quello a cui assistiamo non è solo il risultato della condotta unilaterale d’Israele. Il lancio di razzi contro i civili da parte di Hamas – come accaduto il 10 maggio a Gerusalemme, nella parte occidentale del Negev o Naqab e nelle città intorno a Gaza – è un crimine di guerra.

Lo scorso mese inoltre una serie di filmati pubblicati su TikTok ha mostrato alcuni palestinesi che molestavano e aggredivano degli ebrei ultraortodossi. I militanti palestinesi hanno anche condotto degli attacchi contro civili e soldati israeliani in Cisgiordania, uccidendo Yehuda Guetta, uno studente di 19 anni, il 2 maggio. E negli ultimi giorni dei palloni incendiari sono stati lanciati su Israele da Gaza, bruciando dei campi nel sud del paese.

Niente di tutto questo è paragonabile alla potenza e alla brutalità del più potente esercito della regione, come mostra il bilancio dei morti

È chiaro però che niente di tutto questo è paragonabile alla potenza e alla brutalità messe in atto del più potente esercito della regione, come mostra per l’ennesima volta il bilancio delle vittime. Lo stesso giorno dell’omicidio di Guetta, i soldati israeliani hanno ucciso Fahima al Hroub vicino all’incrocio di Gush Etzion, in Cisgiordania, in virtù di una cultura criminale che autorizza soldati e poliziotti israeliani a uccidere impunemente i palestinesi con problemi mentali.

Nei giorni precedenti all’attacco su Gaza, il governo israeliano (e in particolare lo Shin bet, i servizi segreti interni) si era però spaventato per quello che stava succedendo e aveva provato a limitare i danni. Netanyahu aveva chiesto a Ben-Gvir di rimuovere l’“ufficio” improvvisato che aveva allestito a Sheikh Jarrah e di lasciare il quartiere. L’udienza della corte suprema sulle espulsioni delle famiglie è stata rimandata su richiesta del procuratore generale. Il Monte del tempio è stato chiuso agli ebrei durante la giornata di Gerusalemme. E all’ultimo minuto il governo ha cambiato idea e ha impedito alla famigerata marcia della bandiera degli estremisti ebrei di passare dalla porta di Damasco e nel quartiere musulmano. Tutte queste decisioni sono state presentate come modi per ridurre la tensione.

Ma è stato troppo poco e troppo tardi. La decisione del governo di bombardare Gaza la sera del 10 maggio ha completamente vanificato ogni suo presunto tentativo di mettere rapidamente fine alle violenze a Gerusalemme.

Lo zampino di Netanyahu

Questi, naturalmente, sono solo gli sviluppi delle ultime settimane. La realtà di un assedio di 14 anni su Gaza, di un regime militare costruito su due sistemi legali distinti per ebrei e palestinesi, le espropriazioni e l’ingegneria demografica a Gerusalemme, la discriminazione sistematica ai danni dei cittadini palestinesi d’Israele e l’esilio forzato dei profughi palestinesi sono alla base di tutto quello che sta succedendo oggi. Può darsi che i tentativi di Netanyahu di “gestire il conflitto” negli ultimi anni abbiano cancellato queste ingiustizie dalla coscienza degli israeliani, ma restano la realtà quotidiana per milioni di palestinesi, e alimentano attivamente tutto quello che stiamo vedendo oggi.

Le reazioni israeliane al lancio di razzi di Hamas sono state immediate. Le principali testate e i politici israeliani – compresi quelli che sperano di sostituire Netanyahu – hanno ripetuto a pappagallo la ben nota linea del partito. “Israele deve agire con decisione e fermezza, ripristinando il principio di deterrenza”, ha dichiarato Yair Lapid, che il 5 maggio è stato incaricato di formare un governo, e che ha ricevuto il sostegno del Partito laburista, di Meretz (sinistra) e di buona parte di Lista comune (formata da partiti che rappresentano gli arabo-israeliani). Sia Gideon Saar, ex esponente del Likud (il partito di destra di Netanyahu), sia Naftali Bennett di Yamina (un’alleanza di partiti di destra ed estrema destra), che potrebbe seriamente diventare il prossimo primo ministro, si sono uniti a Lapid nel chiedere attacchi più pesanti contro Gaza, senza nessuna riflessione sulle azioni di Israele.

Dall’altra parte il partito islamista Raam, che aveva dichiarato che avrebbe sostenuto Lapid e Bennett nella formazione di un governo, ha sospeso le trattative in seguito all’aumento delle tensioni in Israele. Né Raam né la Lista comune potrebbero sostenere la formazione di un governo con politici che chiedono un’intensificazione degli attacchi contro Gaza.

Nel novembre del 2019, quando è emersa per la prima volta l’idea di formare un’alleanza di centrodestra con la Lista comune, Netanyahu ha usato Gaza per spiegare l’impossibilità di realizzare un governo del genere. Ora, solo pochi giorni prima che Lapid e Bennett annunciassero la formazione di un nuovo governo per escludere Netanyahu, gli eventi a Gaza giocano direttamente a vantaggio del primo ministro in carica.

È stato Netanyahu a pianificare e orchestrare questa escalation? Non c’è naturalmente alcun modo di dimostrarlo. C’è il suo zampino in tutti gli sviluppi a cui stiamo assistendo? In quanto primo ministro responsabile delle azioni delle autorità ai suoi ordini, la risposta è indubbiamente sì. Tutto quello che è successo nell’ultimo mese, con livelli di violenza mai visti negli ultimi anni, ha aiutato i suoi sforzi per non essere rimosso? Non c’è dubbio, sì.

L’aumento della violenza ci ricorda che non si può rinunciare alla lotta contro l’occupazione e l’apartheid, e che sostituire Netanyahu con un altro politico di destra non risolverà i problemi fondamentali che riguardano ogni aspetto della vita in questo territorio. È una terribile trappola, ma è la trappola della realtà coloniale israeliana. Non c’è altra soluzione se non lottare per l’uguaglianza e la libertà di tutti gli abitanti. E non è altro che una lotta per la vita stessa. ◆ _ff _

Haggai Matar _ è un giornalista e attivista israeliano. Dirige 972 – Advancement of Citizen Journalism, l’organizzazione non profit che pubblica +972 Magazine._

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Questo articolo è uscito sul numero 1409 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati