Elogiato in anticipo da amici e colleghi per l’originalità dell’impresa, con al centro un io raccontato in terza persona che passa di casa in casa con la lentezza e la concentrazione (il concentramento) di una tartaruga, ma non con maggior profitto di quel grande che viaggiava intorno alla sua camera, il libro di Bajani – scrittore di talento ma che scrive, come tanti, troppo per paura di “non esserci” – è meno vario o profondo di quanto vorrebbe. Anche quando tira in ballo Pasolini e Moro e la loro morte. Si ha spesso la tentazione di gridargli: “Aria! aria!”, come capita di fare in questi tempi di clausure forzate dentro case-prigioni. A Bajani manca qui la misura e il ritmo di quando fa versi, e non avendo fantasia del romanziere ma la concentrazione del diarista, finisce per “menare il can per l’aia”, come gli direbbero in Toscana. Viene da invitarlo a imprese più necessarie, meno egotistiche. Come accade nell’impressionante pro-memoria dei luoghi letterari di pesti lontane o vicine che Ginzberg, giornalista milanese di talento che ha girato il mondo per L’Unità, si è divertito (diciamo così) a evocare seguendo cronache e romanzi, da Tucidide a Boccaccio, da Defoe a Manzoni, da London a Camus. Ecco due modi di affrontare un presente apocalittico: la stanza dell’io, la città della peste. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1397 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati