L’annuncio della Paramount di chiudere, dopo quarant’anni, Mtv suona come un requiem generazionale in differita. Mtv è morta da tempo, travolta da tutto ciò che di tecnologico ha modificato la fruizione culturale. Quella casamatta di icone, grafiche e suoni, quel sogno post-sessantottino di “imberbi al potere” che aveva illuso molti di noi – non tanto come chimera professionale, quanto come promessa di un’industria finalmente al nostro passo – è evaporato tra gli ultimi arnesi del novecento. Eppure, per un breve momento, il profluvio di videoclip – brevi, intensi, ripetibili, come saranno i filmati dei social – generò una vertigine generazionale: un’allucinazione di futuro, algoritmica e frammentata, che ci diede l’illusione di essere pilastri di un ponte capace di unire glamour e grunge, analogico e digitale. Da un lato, Mtv ridusse i palinsesti della tv tradizionale a desolanti rotolacampo; dall’altro popolò lo schermo di conduttori e autori giovani, con idee giovani. Estendendo così non solo i confini del pubblico televisivo, ma anche quelli della forza lavoro. Fu una ventata di freschezza – non di fresconi – che la tv tradizionale non seppe, o non volle, alimentare: per timori a me ignoti, e per quel vezzo spietato degli editori – di cui anche Mtv fu nobile esempio – di trasformare ogni utopia generazionale in un format. E i format, per loro natura, hanno la stessa data di scadenza di uno yogurt. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati
 
			 
                         
                     
                     
                    





 
	                 
	                 
	                 
            