Dopo aver rovesciato il presidente Nixon con Tutti gli uomini del presidente nel 1974, il giornalista statunitense Bob Woodward ha raccontato l’ascesa alla presidenza di Donald Trump in un libro appena uscito, Rage. In mezzo ha scritto Wired, un libro sul comico John Belushi (1949-1982).
Come mai? Belushi ha recitato in appena sette film e di solito sullo schermo era piuttosto detestabile. Fuori dallo schermo aveva un comportamento incostante e autodistruttivo fino all’eccesso. Sono passati quasi quarant’anni da quando il comico, ad appena 33 anni, prese il suo cocktail fatale di cocaina ed eroina. Eppure continua ad affascinare scrittori, registi e pubblico. È come una versione brutta di James Dean. Nella sua breve vita si è lasciato alle spalle un’incredibile scia di aneddoti. Molti lo ritengono un genio della comicità.
“Preferisco essere un anarchico piuttosto che un professionista”, dichiara l’attore in Belushi, un nuovo documentario diretto da R.J. Cutler, il regista del documentario sulla moda The september issue. Basta il trailer del film per ricordarsi che grande star fosse Belushi. Quando aveva trent’anni il suo ultimo film, The Blues brothers era in cima alle classifiche d’incassi al cinema, faceva parte del Saturday night live, una delle trasmissioni televisive più famose degli Stati Uniti, e la sua commedia Animal house batteva i record di vendita in videocassetta. Tutti, dai giornalisti seri come Woodward ai grandi nomi di Hollywood come Steven Spielberg, che ha diretto Belushi in 1941 – Allarme a Hollywood (1979), erano attratti da lui.
Ed è facile capire perché gli studenti lo amassero: piaceva alla parte neolitica del cervello adolescenziale maschile. In Animal house è una peste, ma al tempo stesso una persona adorabile. Il suo personaggio, John “Bluto” Blutarsky, è il peggior maiale della Delta house, la confraternita più scapestrata del suo college. Guarda sotto le gonne delle cheerleader. Alla sua prima apparizione nel film lo si vede urinare nelle scarpe di una matricola. Ma nonostante il suo comportamento tremendo, il personaggio è simpatico. Belushi ha un numero relativamente basso di battute, ma si appropria di tutto il film.
Un attore elettrico
“Belushi sembrava attaccato a una presa elettrica”, ha scritto Mel Gussow del New York Times commentando l’interpretazione del comico nei panni del cantante rock britannico Joe Cocker in Lemmings, un varietà musicale del 1973. “La sua faccia dà sempre l’impressione di una rabbia folle che affiora appena in superficie”, scriveva Rolling Stone nel 1978. È stato definito l’attore “più elettrico” della sua generazione. C’erano continui riferimenti alla sua energia esagitata e incontenibile.
È difficile capire come facesse Belushi a sostenere la sua carriera mentre assumeva quantità colossali di cocaina, quaalude e qualsiasi altra cosa avesse a disposizione. Sarebbe tuttavia un errore leggere la storia della star come uno dei tanti racconti parabola su un artista di talento che arriva in cima e poi si distrugge con la droga. Nel suo caso, le droghe lo spingevano in alto. Più successo aveva, più ne aveva bisogno. Figlio d’immigrati albanesi, era nato in un ambiente umile e stava vivendo la sua versione distorta del sogno americano. Talentuoso giocatore di football alle superiori, era a suo modo molto disciplinato. Era anche ambizioso. Quando la sua carriera nel cinema decollò, alla fine degli anni settanta, cominciava la sua settimana sul set a girare film come Animal house o il western di Jack Nicholson Verso il sud. Poi nel fine settimana tornava a New York in aereo per le prove e la partecipazione al Saturday night live. Un ritmo di vita estenuante, che avrebbe distrutto un attore meno dedito al lavoro.
Più la fama di Belushi aumentava più lui, per poter essere all’altezza delle aspettative, diventava dipendente dagli stupefacenti. “Dare o vendere droga a John era una specie di gioco, come dare popcorn alle foche allo zoo. Se gliene davi un po’ si esibiva ed era folle e scandaloso. Se gliene davi un po’ di più rimaneva sveglio tutta la notte, ballando e resistendo più a lungo di chiunque altro”, ha scritto Woodward parlando del comportamento di Belushi all’epoca in cui si preparava a interpretare _The Blues brothers _con il suo amico e collega Dan Aykroyd. Il critico di Chicago Roger Ebert era dello stesso avviso. “Ricordo John dagli inizi degli anni settanta, quando gli versavi da bere come si infilano i quarti di dollaro in un jukebox e lui intratteneva tutti i presenti”. Belushi diceva che si drogava per reagire “alla pressione, alle richieste, agli orari. Hai bisogno delle droghe per gestire tutto quello che questo mondo ti riversa addosso. È difficile stare sempre accesi”.
Arrivano i Blues brothers
Sia che fossero il mezzo con cui Belushi cercava di sfuggire allo stress della recitazione sia che fossero uno strumento per arrivare ancora più in alto sul palco e sullo schermo, le droghe lo distrussero. Nel suo libro The castle on sunset, Shawn Levy descrive Belushi all’inizio del 1982, poco prima della sua morte, come “una discarica, un casino”, un uomo finito.
È incredibile quanto Belushi appaia più vecchio e logoro in The Blues brothers rispetto ad Animal house, uscito appena due anni prima. Non è stato il suo ultimo film, ma è quello per cui tutti lo ricordano. Quarant’anni dopo, resiste ancora benissimo. La produzione è stata notoriamente tormentata e il budget continuava a lievitare in parte a causa del prodigioso uso di droga e del comportamento incostante di Belushi. Nonostante ciò è una storia sfrenatamente vivace, piena di roboanti incidenti automobilistici ed effervescenti interludi musicali ai quali partecipano artisti leggendari del blues e del soul. Belushi recita magnificamente e in tono misurato. Ha sempre la stessa espressione imperturbabile: mentre la sua ex fidanzata gli spara addosso, mentre dei bifolchi gli lanciano contro delle bottiglie in un locale country e western o mentre si esibisce in improbabili numeri acrobatici per accompagnare una canzone di James Brown. E quando lui e Dan Aykroyd eseguono il tema della serie tv western Rawhide o guidano la loro auto scassata dritto contro un raduno di nazisti, Belushi sembra spassarsela un mondo. Chi non lo avrebbe fatto in mezzo a un simile delirio?
Il racconto che Woodward, con il suo tipico stile sobrio, fa della vita di John Belushi non riesce a dar conto del piacere che l’attore continua a donare al pubblico. Se siete alla ricerca di un’immagine che descriva questa star tormentata, è di gran lunga meglio pensare al musicista in abito scuro, cappello e occhiali da sole in missione per conto di dio per salvare il suo orfanotrofio, invece che al personaggio trasandato la cui vita è finita penosamente in una camera dello Chateau Marmont. ◆ gi m
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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 77. Compra questo numero | Abbonati