Nel suo Rapporto sull’istruzione pubblica del 1792, il marchese Nicolas de Condorcet scriveva che l’istruzione dovrebbe essere gratuita dalle scuole primarie fino all’università. Il vantaggio di un sistema del genere, secondo l’illuminato politico e filosofo francese, era dare anche ai bambini e ai ragazzi provenienti dalle classi povere la possibilità di sviluppare capacità e realizzare aspirazioni. Questo perché l’accesso al sapere è uno strumento capace di ridurre sia il divario culturale sia le disuguaglianze economiche della società.
L’importanza dell’istruzione per contrastare le disuguaglianze è stata citata di rado nelle proposte di riforma dell’università in Italia degli ultimi vent’anni. E invece va sottolineata, come il fatto che la decisione di abbassare le tasse universitarie è stata una delle scelte politiche più importanti prese durante la pandemia di covid-19. A giugno se n’era occupata l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno (Svimez), che aveva messo in guardia dal rischio di diecimila iscritti in meno negli atenei italiani per l’anno accademico 2020-2021. Il timore era che le crescenti difficoltà economiche avrebbero impedito a molti studenti di continuare gli studi, un problema per un paese che è già al penultimo posto in Europa per numero di laureati. Questo scenario avrebbe fatto crescere ulteriormente il divario culturale tra nord e sud e lasciato molte persone fuori dal sistema dell’istruzione, in un contesto in cui il numero dei neet (not in education, employment or training, giovani che non studiano né lavorano) rappresenta circa un quarto della popolazione tra i 18 e i 29 anni e in cui la disoccupazione giovanile è intorno al 30 per cento.
Il rapporto Svimez generava anche un altro timore: la riduzione del numero degli iscritti, e quindi degli studenti fuorisede, avrebbe avuto ricadute negative a livello economico, perché i bar sarebbero rimasti vuoti e molte case nelle città italiane sarebbero rimaste sfitte. Anche per questo il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ha scelto di ridurre le tasse per gli studenti con i redditi più bassi. È stata una scelta giusta che ha già dato dei frutti: le iscrizioni sono aumentate in tutta Italia, creando le basi per interrompere la pericolosa tendenza allo spopolamento e al definanziamento degli atenei del sud.
Il problema a monte
Anche la scelta di un sistema blended (basato su una didattica mista, in presenza e online) nasce dal tentativo di rispondere ai rischi del covid-19 senza perdere l’indotto che i fuorisede generano nelle città universitarie. La maggior parte degli atenei italiani ha chiesto ai docenti di tenere i corsi in aule che saranno piene per metà, mentre il resto degli studenti potrà seguire le lezioni da casa.
Proprio perché cerca un equilibrio tra due esigenze diverse, questo modello è stato criticato sia da chi voleva spostare tutta la didattica online – come è avvenuto per esempio all’università di Cambridge – sia da chi voleva riprendere le lezioni in presenza. I primi temono che le riaperture mettano a rischio la salute dei docenti, alcuni dei quali saranno costretti a servirsi dei trasporti pubblici per andare al lavoro, aumentando la possibilità di contagi nelle università, come sta avvenendo negli Stati Uniti. I secondi temono che la didattica online finisca per sostituire quella tradizionale; questo spiega l’appello firmato a giugno da 870 docenti per chiedere di riaprire le università.
Ma la preoccupazione che la didattica digitale possa sostituire quella in presenza è forse eccessiva. Il problema si era posto quando i Massive open online courses (Mooc), corsi gratuiti e aperti erogati da piattaforme private come Coursera, minacciavano di “rottamare” i docenti per sostituirli con registrazioni online. Non è andata così. Come hanno spiegato Justin
Reich e José A. Ruipérez-Valiente del Massachusetts institute of technology (Mit), gli studenti non si sentono necessariamente coinvolti dai corsi
online: li frequentano in modo irregolare e li abbandonano più facilmente.
I corsi online possono avere successo se la relazione tra distanza virtuale e vicinanza emotiva e intellettuale è articolata e ragionata. Come scrive il giornalista Oliver Staley su Quartz, il vero pericolo è che la didattica online faccia nascere un mercato dell’istruzione a basso costo da affiancare all’istruzione tradizionale, sempre più spesso rivolta a studenti ricchi che possono permettersi di vivere nelle residenze pensate per loro.
Il problema, dunque, è a monte. L’università continua a costare troppo, anche in Italia. Per creare una società democratica e meno disuguale, bisogna incentivare gli studi ed evitare di vedere i giovani come potenziali consumatori o affittuari. Bisogna continuare a ridurre le tasse universitarie e garantire un’istruzione accessibile a tutti, senza distinzioni di reddito, come Condorcet aveva capito nel 1792. In questo contesto la didattica online non è necessariamente un problema. Al contrario, può essere una risorsa, soprattutto finché dura la pandemia. ◆
Francesca Coin _ insegna sociologia all’università di Lancaster, nel Regno Unito. È tra le curatrici di In/disciplinate: soggettività precarie nell’università italiana _ (Edizioni Ca’ Foscari 2017).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1377 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati