O ggi nelle carceri bielorusse, stando ai dati ufficiali, ci sono 227 oppositori del presidente Aleksandr Lukašenko. Il blogger e giornalista Mikola Dzjadok è uno di loro. Per sapere come questo ragazzo magro con i capelli corti e gli occhiali sia diventato un nemico pubblico basta una rapida ricerca su internet. I colori di un mondo parallelo è il titolo dei diari dal carcere di Dzjadok, pubblicati online nel 2017 in bielorusso, russo e inglese. Con il suo resoconto di cinque anni di prigionia, il giovane giornalista ha fornito una rara testimonianza di come funziona il sistema penale in Bielorussia. Rilasciato nel 2015, dall’11 novembre 2020 Dzjadok è di nuovo dietro le sbarre, senza un’accusa ufficiale, senza contatti regolari con il mondo esterno e con evidenti segni di tortura. È un perseguitato politico.
Nei telegiornali serali della televisione di stato bielorussa Dzjadok è stato presentato come il presunto responsabile di alcuni attacchi terroristici. Ma chi l’ha visto in tv, soprattutto chi è esperto di torture, ha capito che era stato costretto a confessare con le botte, lo spray al peperoncino e le minacce di morte. Anche suo padre, Alexander, si era convinto che la vita del figlio fosse in pericolo dopo che un compagno di carcere aveva parlato delle minacce di morte subite in prigione. Tre anni prima delle proteste di massa che nell’agosto 2020 hanno scosso il paese, Dzjadok aveva descritto le zone d’ombra e l’illegalità del sistema penale bielorusso. Da un lato ha raccontato il modo in cui i prigionieri all’interno del carcere avevano creato una propria comunità, con le sue regole e gerarchie. Dall’altro ha puntato il dito contro l’amministrazione penitenziaria, abituata a punire ogni lamentela o protesta con settimane d’isolamento.
Mikola Dzjadok ha dato da fare ai suoi carcerieri. Visto che si considerava un prigioniero politico, ha sempre rivendicato i diritti che gli garantisce la legge. Nel marzo del 2015, quando aveva 27 anni, si è rivolto all’opinione pubblica per attirare l’attenzione sulle condizioni in cui vivono le persone in carcere. “Buongiorno!”, ha scritto sul suo blog, “mi chiamo Mikola Dzjadok. Mi rivolgo a tutte le persone per le quali le parole giustizia, umanesimo e dignità hanno ancora un significato”.
Dzjadok era stato arrestato prima delle elezioni presidenziali del 2010 per aver partecipato ad alcune manifestazioni pacifiche a Minsk. Era accusato di essere coinvolto in un incendio doloso all’ambasciata russa. La sua colpevolezza non è mai stata dimostrata. Eppure nel 2011 il ragazzo è stato condannato. A quei tempi era ancora uno studente dell’università indipendente, privata e liberale European humanities di Minsk, costretta a spostarsi nella capitale lituana Vilnius nel 2004. Per più di quattro anni è stato trasferito da un carcere all’altro.
Dzjadok ha descritto tutte le prigioni in cui è stato. La loro storia, le loro regole, perfino il loro odore. Ha parlato del carcere di Žodzina, dov’è finita anche la politica dell’opposizione Maria Kolesnikova; della prigione del Kgb (i servizi segreti bielorussi) nel centro di Minsk, dove sono incarcerati da più di otto mesi Sergej Tichanovskij e Viktor Babariko, i due candidati alla presidenza ai quali è stato impedito di sfidare Lukašenko alle elezioni; e di un carcere nell’est del paese che il governo vorrebbe convertire in campo di concentramento.
L’immagine del regime
Nel suo libro, al momento in corso di traduzione per il sito indipendente Voices from Belarus, il giornalista analizza con linguaggio sobrio il funzionamento interno delle carceri e delle due principali istituzioni che assicurano il potere di Aleksandr Lukašenko: i servizi segreti del Kgb e il ministero dell’interno.
Anche prima dell’attuale ondata repressiva, il sistema penale bielorusso restituiva un’immagine emblematica del regime: da sempre i suoi uomini invocano la legge, ma sono i primi a non rispettarla. In carcere l’arbitrio dello stato non ha limiti. Dzjadok lo ha sperimentato sulla sua pelle: privazioni di sonno, niente riscaldamento, digiuno forzato e nessun contatto con il mondo esterno. Ora, con la scusa della pandemia di covid-19, lui e gli altri prigionieri politici non ricevono più nemmeno i pacchi alimentari. Perfino le lettere gli vengono recapitate solo in casi eccezionali.
◆ 1988 Nasce a Brahin, in Bielorussia.
◆ 2010 Viene arrestato per la prima volta dopo aver partecipato a una manifestazione dell’opposizione.
◆ 2011 È condannato a quattro anni e mezzo di carcere con la falsa accusa di aver partecipato a degli attentati.
◆ 2015 In seguito alle pressioni internazionali è rilasciato. Si laurea in scienze politiche.
◆ 2017 Viene arrestato di nuovo a Minsk.
◆ 2021 Il sito Voices from Belarus traduce il suo libro sull’esperienza in carcere.
A Žodzina, dove sono ancora detenuti decine di manifestanti dell’opposizione, Dzjadok è stato picchiato semplicemente perché è un prigioniero politico. Già nel 2017 aveva denunciato gli abusi che nell’agosto del 2020 hanno spinto centinaia di migliaia di manifestanti a scendere in piazza. In quel carcere l’hanno costretto a stare con le spalle al muro mentre gli ufficiali lo colpivano alle gambe.
Dzjadok parla di “poliziotti che non rispettano la legge, con tendenze sadiche, che non riescono a vederti come un essere umano”, e spiega così perché dopo le elezioni presidenziali truccate nel 2020 tutto è cambiato. Sono finiti i tempi in cui nel carcere di Žodzina c’erano “solo” pochi prigionieri politici. In questo momento in Bielorussia è in corso uno scontro senza precedenti sulla dignità e lo stato di diritto.
In Bielorussia, come in altri paesi, il carcere è il luogo dove la salute della democrazia si osserva come sotto una lente d’ingrandimento, si misura sul trattamento riservato a ogni prigioniero.
Nel suo libro Dzjadok non si sofferma solo sul proprio destino, ma anche sulla vita quotidiana dei suoi compagni di prigionia, per lo più pesci piccoli finiti in prigione per furto, rapina o spaccio. Dzjadok riflette sulle vite che cominciano e finiscono dietro le sbarre. Descrive il modo in cui i prigionieri perdono il senno di fronte alla brutalità dello stato. Parla di un’ex compagna di cella chiamata Ira, che delirava ad alta voce per cinque o sei ore al giorno, ascoltata da tutti. Ricorda anche un sedicente indovino che gli ha offerto di diventare ricco vendendo indulgenze in Russia una volta uscito dal carcere.
L’unico al mondo
Dopo aver scontato quattro anni, nonostante le proteste, nel 2020 Dzjadok è finito dentro per un altro anno, in condizioni ancora più dure. Il semplice fatto che rivendicasse i suoi diritti è stato sufficiente per trattenerlo in carcere più a lungo.
Dzjadok dice con autoironia di essere l’unico anarchico al mondo uscito di prigione grazie alle pressioni degli Stati Uniti, che nel 2015 avevano preso pubblicamente posizione contro la sua incarcerazione e quella di altri oppositori. Lukašenko stava cercando di avvicinarsi all’occidente per mettere pressione alla Russia e gli era stato imposto come condizione di rilasciare tutti i prigionieri politici ancora in carcere. Dopo quella prima prigionia Dzjadok è riuscito a finire i suoi studi in scienze politiche all’università bielorussa in esilio a Vilnius, in Lituania, ha lavorato come giornalista e ha scritto il suo memoriale sul carcere.
Il suo libro dimostra che un regime che rinchiude gli oppositori non potrà mai vincere. Lui stesso non si è lasciato spezzare dalla prigione. Piuttosto ha usato la cella come palcoscenico per preparare la sua prossima battaglia.
Intanto in Bielorussia il prezzo da pagare per chi esprime liberamente le proprie idee è aumentato ancora: le pene detentive degli oppositori di Lukašenko sono diventate sempre più lunghe. Mikola Dzjadok ha una sobria consapevolezza da opporre al presidente: “Non è difficile restare seduto e soffrire, se sai per cosa lo fai”. È convinto che nessun uomo potrà mai privare completamente un altro della sua libertà, dei suoi diritti e della sua dignità. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1403 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati