L’India e il Pakistan ci sono già passati: un attacco terroristico in cui vengono uccisi degli indiani provoca una serie di ritorsioni reciproche che portano l’Asia meridionale sull’orlo di una guerra totale. Poi la tensione si allenta. Questo schema si è ripetuto nella crisi più recente, cominciata il 22 aprile con un attentato terroristico nel Kashmir indiano che ha causato la morte di 26 persone e finita con il cessate il fuoco del 10 maggio.
Ma oggi ci sono delle differenze significative rispetto al passato. Per la prima volta abbiamo assistito a uno scambio diretto di missili e all’uso di sistemi avanzati e di droni. Da tempo sembra che l’erosione delle norme internazionali, la diminuzione dell’interesse e dell’influenza degli Stati Uniti nella regione e l’accumulo di tecnologie militari e digitali avanzate abbiano aumentato molto il rischio di un’escalation in caso di crisi. Questi cambiamenti hanno coinciso con mutamenti politici interni in entrambi i paesi. Il nazionalismo indù del primo ministro Narendra Modi ha acuito le tensioni tra le comunità in India. Al tempo stesso il capo dell’esercito pachistano, il generale Syed Asim Munir, ha abbracciato la “teoria delle due nazioni”, secondo cui il Pakistan è la patria dei musulmani del subcontinente come l’India lo è degli indù.
La rivalità tra India e Pakistan è costata decine di migliaia di vite in diverse guerre, nel 1947-1948, nel 1965 e nel 1971. Ma dalla fine degli anni novanta, ogni volta che i due paesi si sono trovati sull’orlo del conflitto, un’intensa azione diplomatica, spesso guidata dagli Stati Uniti, ha sempre contribuito a disinnescare la crisi. Il ruolo pacificatore di Washington era sensato: durante la guerra fredda aveva stretto un’alleanza con il Pakistan per contrastare i legami dell’India con l’Unione Sovietica. E dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, ha versato miliardi di dollari in aiuti militari al Pakistan, un partner in prima linea nella “guerra al terrorismo”. Contemporaneamente, a partire dai primi anni duemila, gli Stati Uniti hanno cominciato a considerare l’India un partner strategico. Un Pakistan stabile era un alleato cruciale nella guerra in Afghanistan, mentre un’India amica rappresentava un contrappeso strategico alla Cina.
Oggi però l’attenzione statunitense si è allontanata dall’Asia meridionale. Il processo è cominciato con la fine della guerra fredda, ma ha subìto una forte accelerazione dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan nel 2021. Più recentemente, le guerre in Ucraina e in Medio Oriente hanno consumato gli sforzi diplomatici di Washington. Da quando Donald Trump si è insediato alla presidenza nel gennaio 2025, gli Stati Uniti non hanno ancora nominato gli ambasciatori a New Delhi e a Islamabad e non hanno confermato un vicesegretario di stato per gli affari dell’Asia meridionale e centrale, fattori che devono aver ostacolato qualsiasi ruolo di mediazione del paese. E anche se Trump ha dichiarato che il cessate il fuoco è arrivato dopo una “lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti”, le dichiarazioni di India e Pakistan ne hanno minimizzato il coinvolgimento, concentrandosi sulla natura bilaterale diretta dei negoziati. Non è ancora chiaro chi riempirà il vuoto lasciato da Washington, ammesso che qualcuno lo faccia.
Armi sofisticate
La Cina, che in altri contesti ha cercato di ritagliarsi un ruolo di mediatore, non è considerata neutrale a causa della sua vicinanza con il Pakistan e dei passati conflitti frontalieri con l’India. Altre potenze regionali come l’Iran e l’Arabia Saudita hanno cercato di intervenire durante l’ultima crisi, ma nessuna ha il peso di Washington o di Pechino. L’assenza di mediazione esterna non è un problema in sé. Storicamente l’interferenza straniera – in particolare il sostegno degli Stati Uniti al Pakistan durante la guerra fredda – ha spesso complicato le dinamiche nella regione, creando squilibri militari e rafforzando le posizioni più oltranziste. Il passato ha però dimostrato che la pressione esterna – soprattutto quella di Washington – può servire.
La crisi recente si è svolta sullo sfondo di un’altra dinamica: l’erosione delle norme internazionali a partire dalla fine della guerra fredda, accelerata dopo il 2001. La “guerra al terrore” statunitense ha rimesso in discussione in modo sostanziale il quadro giuridico internazionale usando metodi come gli attacchi preventivi contro stati sovrani, le uccisioni mirate con i droni e tecniche d’interrogatorio che molti esperti di diritto classificano come tortura. Più di recente, le operazioni di Israele a Gaza, in Libano e in Siria hanno attirato molte critiche per le violazioni del diritto umanitario internazionale, con un effetto limitato. In breve, le norme che regolano le relazioni tra paesi si sono dissolte e le azioni militari un tempo inaccettabili si compiono quasi senza conseguenze.
A quanto pare nell’ultima crisi i caccia pachistani J-10 di fabbricazione cinese hanno abbattuto diversi aerei indiani, tra cui i Rafale francesi di ultima generazione. Questo confronto tra armi cinesi e occidentali è una sorta di test per procura di tecnologie militari globali rivali. L’uso di droni vaganti progettati per attaccare i sistemi radar indica inoltre un notevole salto di qualità tecnologica degli attacchi transfrontalieri rispetto al passato. Il conflitto ha visto poi una notevole espansione in campo informatico. Gli hacker pachistani dicono di aver violato le barriere digitali di varie istituzioni della difesa indiana, e i social media e i nuovi mezzi d’informazione di destra in India sono diventati un fronte di battaglia.
Questi cambiamenti hanno creato diverse traiettorie di possibili escalation che i metodi tradizionali di gestione delle crisi non sono pronti ad affrontare. Particolarmente preoccupante è la questione nucleare. Il Pakistan prevede l’uso di armi atomiche se la sua esistenza è minacciata e ha sviluppato armi nucleari tattiche a corto raggio per contrastare i vantaggi di quelle convenzionali indiane. L’India ha informalmente ridimensionato la sua storica posizione contro il primo utilizzo, creando ambiguità sulla sua dottrina operativa. Stavolta sembra aver prevalso la mediazione. Ma quest’ultima fiammata è stata un pericoloso punto di svolta. Quel che succederà in seguito ci dirà molto su come le potenze nucleari rivali gestiscono, o non gestiscono, la spirale del conflitto in questo nuovo rischioso panorama. ◆ gim
Farah N. Jan insegna relazioni internazionali all’università della Pennsylvania.
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Questo articolo è uscito sul numero 1614 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati