“No, il referendum sulla cittadinanza no! Assolutamente no! Imbastardire l’etnia italiana significa fare i comodi dei poteri forti. Un’Italia forte è un’Italia che sa riconoscersi non solo nella cultura, ma anche nei suoi tratti fisici universali”. “Se devo disegnare un italiano, devo saperlo fare in fretta e subito, senza chiedermi che colore debba avere la sua pelle. Gli italiani sono bianchi ed europei. Alcuni referendum vorrebbero farci pensare il contrario. Ma il contrario non esiste. Basta guardarsi intorno per capire dove sta la verità e chi ha ragione”. “Certe scelte, specie se riguardano l’identità del nostro paese, non dovrebbero essere lasciate a cittadini irresponsabili e per nulla patriottici”.
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L’Italia è una e indivisibile. E io, che sono un’italiana figlia di immigrati africani, scrivo queste parole che sono un imbarazzante riepilogo di tutto quello che mi hanno insegnato gli italiani sull’italianità. Impari molto quando il tuo aspetto esteriore entra in contrasto con le aspettative della maggioranza. Il mio corpo è un potente reagente. Provoca reazioni, commenti, osservazioni, disagio, confusione. Se parlo, poi, la faccenda diventa ancora più complicata. Perché questa apparente straniera produce una lingua che è italiana e dei modi di fare, di porsi e di pensare che sono assolutamente familiari. Perfino il peggior razzista sulla faccia della terra vive una dissonanza cognitiva di dimensioni mostruose. Perché sente il suono tipico della sua gente, ma non ne vede l’aspetto. E pensa: “Questa è una frode. Un complotto. Qualcosa di cui diffidare”.
Se vado dal fornaio mi aspetto che mi servano del pane e non un gelato che all’esterno ha la crosta del pane. Sto mangiando pane o gelato? E tu chi sei? Sei italiana o sei africana? Scegli. Dicci. Chi sei? Da dove vieni? Perché sei tanto simile a noi, ma allo stesso tempo tanto diversa? Gli italiani soffrono. Sono confusi. Ansiosi di perdersi nel vento di questi continui cambiamenti globali. Hanno paura di essere cancellati e sostituiti. D’altronde nella storia alcuni fatti testimoniano l’esistenza di etnie che sono andate a sostituirne altre. Ma, paradossalmente, l’opera di sostituzione etnica di maggiore successo e meglio documentata fu quella portata avanti dai coloni europei che si trasferirono nelle Americhe e in Australia. Le popolazioni furono sistematicamente distrutte, chiuse nelle riserve e sterilizzate, per creare spazi in cui spagnoli, portoghesi, tedeschi, inglesi, francesi potessero prosperare in pace e armonia.
◆ In molti paesi dell’Unione europea i criteri per ottenere la cittadinanza sono simili: essere residenti legalmente e in maniera continuativa, conoscere la lingua nazionale, non avere precedenti penali gravi o comportamenti antisociali, avere conoscenze di cultura generale e un reddito o un lavoro stabile. Alcune regole invece variano da paese a paese.
Germania Essere residente da almeno cinque anni. Passare un test di lingua (livello B1) e cultura. Avere mezzi economici per garantire il proprio sostentamento e quello dei familiari a carico. Non avere condanne penali.
Francia Essere residente da cinque anni (due se si ha un diploma francese). Aver superato un test di lingua (livello B1) e un colloquio per valutare la conoscenza della storia francese.
Spagna Essere residente legalmente da almeno dieci anni, cinque anni per i rifugiati. Conoscere la lingua (almeno livello A2 o superiore). Per le persone provenienti dal Portogallo o nate in un paese del Sudamerica in cui si parla spagnolo o in altri paesi parzialmente ispanofoni, come le Filippine e la Guinea Equatoriale, bastano due anni di residenza legale.
Italia Essere residente da almeno dieci anni (quattro anni per i cittadini che provengono da un altro paese dell’Unione europea), avere un reddito minimo garantito e conoscere la lingua (livello B1). Se invece si è nati in Italia da cittadini stranieri si può chiedere la cittadinanza quando si compiono 18 anni. Secondo i dati Eurostat, l’Italia è il paese europeo che ha il percorso più lungo per ottenere la cittadinanza ed è il quinto paese europeo, in rapporto alla popolazione, per concessione delle cittadinanze. Unione europea
Propaganda del ventennio
Anche Benito Mussolini fu conquistato dall’idea di rendere europea, bianca e italiana la Libia. Secondo la propaganda di quegli anni l’emigrazione degli italiani nella nuova colonia doveva essere raccontata come un viaggio epico, un ritorno verso una terra promessa vergine e disponibile, pronta a essere fecondata e a dare frutti e ricchezze in abbondanza. Non è un caso che il colonialismo abbia tanti punti di contatto con la cultura dello stupro. La terra è femmina. E chi la conquista lo fa non solo per possederla, ma per mettere a profitto la sua fecondità.
Agli italiani spediti a occupare la “quarta sponda del Mediterraneo” si chiedeva solo una cosa: non fate figli con la gente del posto. In poche parole, non sporcate la razza italiana. I figli nati da unioni tra italiani e africani non solo non erano riconosciuti come italiani, ma venivano anche perseguitati, maltrattati e spinti ai margini della società. Non bisognava mischiare il sangue buono con quello di popoli incivili, inferiori e violenti, perché era importante segnare una differenza estetica, chiara e inconfutabile tra colonizzatori e sudditi. E in un mondo in cui era essenziale mostrare il colonialismo in una luce quanto più umana e legittima possibile, custodire l’integrità della bianchezza era fondamentale.
C’è un problema però: i bianchi non esistono. La razza è una struttura identitaria che riorganizza le specificità di individui uniformando e semplificando concetti, credenze, percezioni della realtà, della storia e dei rapporti con chiunque sia escluso da una certa categoria. La bianchezza, l’idea di una razza bianca, ha la funzione di giustificare un potere assoluto sull’altro che – avendo perso il suo status di essere umano – viene razzializzato e inferiorizzato. È chiaro che, considerate queste premesse, il regime fascista non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua purezza ariano-italiana. Apparire bianchi significava esserlo, da qui l’importanza che si attribuisce ancora oggi all’identità italiana che passa per il sangue e il colore della pelle. Poco importa che da nord a sud gli italiani si presentino con diverse sfumature epidermiche.
Per comprendere le parole d’odio che oggi si spendono nei confronti degli italiani di seconda generazione, bisogna comprendere il passato fascista, e in particolare quello che il regime fece agli italiani e alla percezione della loro identità. Il fascismo non si limitò a prendere il potere: volle rifare gli italiani. Volle sbiancarli, isolarli, renderli migliori degli altri e parte di una grande popolazione europea e ariana che condivide un’unica radice biologica e culturale.
Razzismo all’italiana
L’Italia, con la sua diversità e la sua ricchezza di lingue, dialetti, costumi e storia, fu massacrata in favore di un’italianità che, nel presente, manifesta il suo carattere difensivo ed escludente. La stragrande maggioranza degli italiani che oggi esprimono posizioni xenofobe e nazionaliste sostiene di essere la depositaria della verità. Ed è in nome della libertà che queste persone non si dicono razziste ma patriote: non è razzista dire che esiste un’etnia italiana che va difesa a tutti i costi da chi vorrebbe eliminare dalla penisola i tipici abitanti italiani con pelle chiara, occhi azzurri e capelli castani o biondi; non è razzista sostenere che un’atleta italiana di origine africana non rappresenta il tipico aspetto degli italiani; e non è razzista sostenere che frequentare le scuole in Italia, parlare la lingua italiana e conoscere la cultura italiana non ti rende automaticamente italiano. Né è crudele o inammissibile sostenere che l’Italia, se fosse in vigore lo ius soli (cioè il diritto alla cittadinanza per chi nasce in territorio italiano), correrebbe il rischio di diventare la sala parto d’Africa.
Ognuna di queste dichiarazioni è stata rilasciata da ministri e parlamentari della repubblica e ha un riscontro nel cosiddetto Manifesto della razza, anche noto come Manifesto degli scienziati razzisti e pubblicato il 14 luglio 1938 sul Giornale d’Italia con un titolo eloquente: “Il fascismo e i problemi della razza”. Oggi come allora il controllo e la conservazione dei tratti somatici della razza italiana sono più importanti della lingua che si parla, della cultura che si abita, degli affetti che si intrecciano e delle decisioni che si prendono ogni volta che si decide di essere soggetti attivi di una società civile.
L’Italia è un paese razzista perché, paradossalmente, non attribuisce alcun valore alla cultura che esprime. La cultura non è abbastanza. Ci vuole la pelle giusta, e noi, finti stranieri in casa nostra, non ce l’abbiamo. L’Italia razzista esamina i corpi, la grandezza dei nasi, la struttura dei capelli, la forma degli occhi, il colore della pelle. Ma ti dirà sempre che lo fa per proteggersi, per ricordarsi chi è realmente. E le cose non cambieranno finché non riconosceremo che il modo in cui pensiamo l’identità italiana è frutto di una mistificazione fascista. In questo quadro drammatico eppure paradossale sono i patrioti dell’ultima ora a calpestare la cultura italiana, più che una pallavolista italo-nigeriana che gareggia per la Nazionale.
L’identità italiana va liberata dalla violenza razziale che, come popolo, abbiamo ereditato dal fascismo. L’identità italiana è un collante. Un mezzo. Non un fine o una conquista. L’identità italiana è ciò che ci serve oggi per dire agli altri che sono i benvenuti e che insieme si può costruire e decostruire.
Il problema è che questo collante identitario, con il tempo, rischia di diventare cemento armato, che esclude, delimita, irrigidisce. Quando l’identità nazionale si trasforma in un recinto etnico, dove si opera una distinzione tra padroni italiani e sudditi immigrati, non siamo più nella costruzione condivisa di una collettività, ma nella sua sorveglianza politica e biologica. Entrare nell’ottica che l’identità italiana non è un museo, ma un cantiere a cielo aperto, forse ci salverà.
Djarah Kan è una scrittrice femministae attivista culturale italo-ghaneana. Ha pubblicato Il mio nome nella raccolta di racconti Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ 2019) e Ladri di denti (People 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati