John Nkengasong era curvo su una scrivania a studiare dei numeri in un’ala deserta della sede dell’Uni­one africana ad Addis Abeba. Era il tardo pomeriggio del 18 febbraio 2020 ed erano già andati quasi tutti a casa. La stanza grande e anonima dove lavorava era una delle tante assegnate ai Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Cdc), un’agenzia panafricana che si occupa di salute pubblica e ha il compito di rafforzare i sistemi sanitari dei 54 paesi del continente. Gli Africa Cdc sono nati nel 2017 e Nkengasong è il loro primo direttore.

Il 14 febbraio l’Egitto aveva segnalato il primo caso di covid-19 in Africa: un cittadino cinese sbarcato al Cairo. In quei quattro giorni non erano state confermate altre infezioni. Ma Nkengasong, un virologo camerunese con trent’anni di esperienza, sapeva cosa sarebbe successo e ha deciso di mettere in allerta il continente.

L’Europa si era appena accorta della minaccia del covid-19 e l’Africa era già in moto. All’aeroporto internazionale di Bole, ad Addis Abeba, dove ogni giorno atterravano almeno cinque voli dalla Cina, operatori protetti da mascherine raccoglievano informazioni sui passeggeri e controllavano a tutti la temperatura. Lo stesso succedeva in altre parti del continente. Alcune persone con la febbre avevano dovuto sottoporsi al tampone per il covid-19, ma erano risultate negative.

Il primo caso dell’Africa subsahariana è stato confermato il 28 febbraio: un imprenditore italiano arrivato a Lagos, la capitale commerciale della Nigeria, con i sintomi della malattia. Successive analisi genomiche avrebbero rivelato che le infezioni registrate in Africa non venivano dalla Cina, ma dall’Europa. Nkengasong parla di un “attacco anfibio”, cioè di un’inversione dei normali modelli di diffusione delle malattie infettive, di cui l’Africa è spesso l’origine: questa volta la minaccia veniva da nord.

Scenari da brivido

Ripensando ai primi mesi, quando ha visto la pandemia travolgere i sistemi sanitari di paesi come l’Italia, la Spagna e il Regno Unito, Nkengasong ricorda di essere stato profondamente colpito: “Abbiamo seguito con spavento e stupore quello che stava succedendo in Europa. Sapevamo che se fosse successo da noi, nelle stesse proporzioni, non ce l’avremmo fatta”.

In un continente che ha 1,3 miliardi di abitanti c’erano reparti di terapia intensiva solo in pochissimi paesi, come il Sudafrica e l’Egitto. Girava la notizia che il Sud Sudan, l’ultimo nato tra gli stati africani e uno dei più tormentati dalle guerre, aveva meno ventilatori polmonari (quattro) che vicepresidenti (cinque). Era necessario intervenire al più presto. Nkengasong ha mandato i suoi collaboratori in Germania per prendere diecimila kit per i tamponi. Nel frattempo l’istituto Louis Pasteur di Dakar, in Senegal, una struttura d’eccellenza gestita dal virologo senegalese Amadou Sall, ha cominciato a formare dei tecnici sulla nuova malattia. Alla fine di febbraio 42 paesi avevano le capacità per eseguire i test per individuare il covid-19. Poche settimane prima, nessuno sarebbe stato in grado di farli.

Nkengasong si esprime sempre in modo misurato ma le sue parole trasmettono un senso d’urgenza. Ha dedicato gran parte della sua carriera a combattere l’hiv, il virus che causa l’aids, una malattia scoperta quando lui aveva appena cominciato a studiare medicina, a metà degli anni ottanta. Da allora l’hiv ha infettato 75 milioni di persone in tutto il mondo e ne ha uccise 32 milioni, la maggior parte in Africa. Come l’hiv, che ha fatto il salto di specie dalle scimmie agli esseri umani, anche il sars-cov-2, il virus del covid-19, ha usato come veicoli degli animali, un pipistrello e probabilmente un pangolino, che è stato poi macellato in un mercato di animali vivi nella città cinese di Wuhan.

Nkengasong ha visto con preoccupazione questo nuovo virus infiltrarsi in ogni provincia cinese, finché Pechino non ha deciso di vietare gli spostamenti di 60 milioni di persone. “Era come confinare tutti gli abitanti del Sudafrica o del Kenya”, osserva il virologo camerunese. “Se qui le cose andassero fuori controllo, sarebbe molto difficile per i nostri sistemi sanitari gestire la situazione”. Da quasi tutti i punti di vista l’Africa è svantaggiata rispetto ai continenti più ricchi. A parte uno: gli africani conoscono bene le malattie infettive, fin troppo. Mentre il virus mandava nel panico europei e americani, molti africani scrollavano le spalle. Il loro atteggiamento è stato “ecco che ne arriva un altro”, osserva la giornalista statunitense Laurie Garrett, autrice del libro del 1994 _The coming plague _(La prossima pestilenza). In tutto il continente ci sono esperti del calibro di Nkengasong, reduci da lunghe battaglie contro malattie endemiche come la malaria, la tubercolosi e il colera e, in anni più recenti, la febbre di Lassa e l’aids. “Mi basta alzare il telefono per parlare con chiunque di loro”, spiega Nkengasong.

Scelte difficili

Prima della fine di febbraio, Nkengasong ha organizzato ad Addis Abeba una conferenza di due giorni con i ministri della salute africani. “Non sono mai stato tanto serio in vita mia”, dice. “Hanno risposto tutti, dall’Egitto al Marocco, dalla Nigeria al Sudafrica”. Poco tempo dopo, Cyril Ramaphosa, il presidente del Sudafrica e leader di turno dell’Unione africana, ha cominciato a tenere videoconferenze settimanali per coordinare la risposta continentale. “Non so di nessun’altra parte del mondo in cui si siano dati da fare così rapidamente”, osserva Nkengasong. Inevitabilmente il virus è riuscito a penetrare anche in Africa. Il 20 marzo si era diffuso in quaranta paesi. Il numero dei positivi, però, era relativamente basso e molti governi hanno messo in campo tutte le loro forze per fermare i contagi.

Il Ruanda è stato uno dei più determinati. Il 31 gennaio ha cancellato i voli dalla Cina. A marzo, una settimana dopo che il primo caso era sfuggito alla sua rete di controlli, ha sospeso i voli internazionali, chiuso i confini e obbligato i cittadini a rimanere a casa. “È quello che avrebbero dovuto fare tutti”, afferma Agnes Binag­waho, vicerettrice dell’Università per l’equità sanitaria globale, in Ruanda. “Non l’abbiamo fatto perché siamo ricchi. L’abbiamo fatto perché siamo organizzati”.

Anche il Sudafrica ha adottato provvedimenti rigidi. Il 23 marzo, prima che si registrasse il primo decesso per covid-19, Ramaphosa ha imposto un lockdown di tre settimane, uno dei più severi al mondo. I lavoratori che non svolgevano compiti essenziali dovevano restare a casa e la vendita di alcolici era vietata.

Non tutti i paesi hanno potuto fare lo stesso. In effetti c’è chi sosteneva che misure come quelle messe in atto in occidente avrebbero avuto conseguenze gravi, e che ai poveri bisognava lasciare il modo di procurarsi da mangiare. Allo stesso tempo convincere le persone a restare chiuse in insediamenti e case sovraffollate non era l’ideale per il distanziamento fisico. Per alcuni governi imporre un _lockdown _era eccessivo, soprattutto considerando che la popolazione africana è giovane (l’età mediana è 19,4 anni, circa la metà di quella europea) e l’obesità è poco diffusa (anziani e persone non in buona salute sono più vulnerabili al covid-19). Se tutte le attività si fossero fermate, alcuni programmi fondamentali, come le campagne di vaccinazione e l’assistenza sanitaria alle madri, si sarebbero interrotti, causando più danni della pandemia. I governi dovevano valutare bene i rischi.

Così molti hanno evitato di imporre il blocco totale, ma hanno sempre agito con la massima cautela. Dal Senegal all’Uganda sono state chiuse le scuole, le chiese, le moschee e vietati i raduni di massa. L’Etiopia ha seguito un metodo molto semplice. Secondo Arkebe Oqubay, consigliere speciale del primo ministro etiope Abiy Ahmed fino a poco tempo fa, alla fine di maggio le autorità avevano contattato quaranta milioni di abitanti sul totale di 110 milioni, controllando le temperature e la cronologia dei loro spostamenti. “Questa non è una malattia che possiamo combattere con ventilatori e terapie intensive”, dice. “L’unico modo è puntare sulla prevenzione”.

Non sono mancate le scelte difficili. Il Kenya ha imposto il coprifuoco dal tramonto all’alba. A un certo punto, la polizia che sparava su trasgressori aveva fatto più morti del covid-19. Secondo Kennedy Odede, che ha partecipato a una distribuzione di sapone in una baraccopoli di Nairobi, gli abitanti dicevano che era meglio “morire per il virus che per la fame”.

Nonostante le difficoltà, la minaccia è stata presa sul serio. Per esempio, i guidatori di matatu, gli affollati minibus di Nairobi, obbligavano i passeggeri a disinfettarsi le mani prima di salire. Nei negozi e negli uffici dell’Africa occidentale sono riapparsi i distributori d’acqua dotati di rubinetto per lavarsi le mani chiamati “secchi di Veronica” (dal nome della biologa ghaneana, Veronica Bekoe, che li ha inventati), già usati durante l’epidemia di ebola che ha colpito la regione tra il 2013 e il 2016. Per scoraggiare l’uso del denaro contante Safaricom, l’operatore di telefonia mobile keniano pioniere dei pagamenti con il cellulare, ha abolito le commissioni su molte transazioni effettuate con il servizio M-Pesa.

Non tutti i governi africani si sono attivati. In Tanzania, il presidente John Magufuli, soprannominato “bull­dozer” per la sua inflessibilità, ha sempre negato che il covid-19 fosse pericoloso e ha esortato i tanzaniani ad andare al lavoro e a riunirsi normalmente. I funerali di molte vittime si svolgevano la notte.

Salé, Marocco, 26 aprile 2020. Un murale per ringraziare le persone impegnate nella lotta al covid-19 (Fadel Senna, Afp/Getty Images)

E anche dove i governi hanno agito con fermezza il virus si è comunque diffuso. I paesi dove ci sono state più vittime sono quelli del Nordafrica: Marocco, Algeria ed Egitto; e il Sudafrica, che ha registrato la metà dei decessi continentali. A luglio alcuni ospedali sudafricani erano sull’orlo del collasso. In media c’erano 12mila contagi al giorno. A settembre il Sudafrica contava più di 16mila morti per il covid-19, ma a quel punto nel paese stava tornando l’estate, e le nuove infezioni sono nettamente diminuite.

Il Sudafrica potrebbe essere stato più colpito perché ha una popolazione più anziana, e un’incidenza più alta di diabete e malattie cardiache. Il resto del continente ha evitato il peggio. A livello globale l’Africa, che ospita il 17 per cento della popolazione mondiale, ha registrato solo il 3,3 per cento dei decessi per covid-19.

Il numero relativamente limitato di vittime – anche se potrebbe essere sottostimato – non può essere attribuito solo a scelte politiche giuste. Altri fattori, come una precedente esposizione a virus della stessa famiglia, potrebbe aver reso le persone meno vulnerabili al covid-19. Ma secondo gli scienziati è presto per dirlo, senza contare che la pandemia continua. Tuttavia è evidente che la politica ha avuto un ruolo cruciale. “L’Africa non era mai riuscita a mettere in campo una risposta simile”, afferma Peter Piot, direttore della London school of hygiene and tropical medicine. “Sorprendentemente stavolta hanno agito prima di avere un problema”.

Agire presto non basta

Anche l’India ha agito presto. Il 24 marzo, dopo appena 550 contagi e una decina di morti, il primo ministro Narendra Modi ha fatto un annuncio drammatico: gli 1,4 miliardi di abitanti del paese avrebbero dovuto restare chiusi in casa. I successivi 21 giorni sarebbero stati cruciali, altrimenti il paese avrebbe rischiato di tornare indietro di 21 anni. Ma non è stata la scelta giusta. Nelle poche ore precedenti alla chiusura, decine di milioni di lavoratori stagionali si sono messi in viaggio per tornare nei loro villaggi d’origine. E hanno probabilmente portato con loro il virus, che si è diffuso dalle grandi città, come New Delhi, Mumbai e Pune, a ogni angolo del subcontinente. A ottobre l’India, con quasi centomila morti, era il terzo paese al mondo per decessi da covid-19, dopo Stati Uniti e Brasile. I contagi ufficiali erano più di 6 milioni (oggi hanno superato i 9,5 milioni). Guardando ai test sierologici gli infettati potrebbero essere stati molti di più, forse cento milioni.

Nairobi, Kenya, 15 luglio 2020 (Yasuyoshi Chiba, Afp/Getty Images)

“Il confinamento non ha limitato la diffusione del virus, ma ci ha fatto guadagnare tempo”, spiega Bhramar Mu­kherjee, docente di biostatistica all’università del Michigan. Tuttavia senza una sanità pubblica solida, in grado di fare un gran numero di tamponi, l’epidemia è sfuggita di mano.

Dopo settimane di restrizioni, il governo ha improvvisamente cambiato rotta, annunciando che gli indiani dovevano imparare a convivere con la malattia. Molti volevano disperatamente rimettersi al lavoro, senza tener conto delle conseguenze.

“È difficile trasmettere un messaggio di salute pubblica a qualcuno che non sa come garantirsi il prossimo pasto”, afferma Shahid Jameel, amministratore delegato del Wellcome trust/Dbt alliance, un ente di beneficenza biomedico. Il governo, spiega Jameel, ha peggiorato le cose usando selettivamente i dati. Ha pubblicizzato un tasso di mortalità apparentemente basso per mostrare che le politiche stavano funzionando. “Ma è un racconto basato su dati selezionati in base ai propri interessi, che alla lunga ha stancato gli indiani e li ha portati a essere meno rigorosi”. Mukherjee racconta di aver visto molte persone con la mascherina abbassata, segno che non capivano la gravità della situazione o si erano rassegnate all’inevitabile diffusione del virus.

L’America Latina ha sofferto ancora di più. Bolivia, Ecuador, Cile, Argentina, Colombia, Perù, Messico e Brasile sono stati colpiti duramente dal virus. Alcuni avevano agito tempestivamente, altri si erano affidati alla sorte, come ha fatto il Brasile del presidente Jair Bolsonaro, per cui la malattia era un semplice “raffreddore”. La metà dei decessi globali causati dal covid-19 è avvenuta nelle Americhe.

Il Brasile, un paese di 210 milioni di abitanti, aveva già lottato a lungo contro l’hiv e altre epidemie, come quella provocata nel 2015 dal virus zika. Margareth Dalcolmo, una pneumologa del Fiocruz di Rio de Janeiro, afferma che la strategia della comunità medica contro il covid-19 è stata boicottata dal governo: “Abbiamo ripetuto che il distanziamento era un importante strumento di prevenzione. Ma il governo è sempre stato contro di noi”.

Invece di trasmettere un messaggio chiaro e basato sulla scienza, Bolsonaro ha creato il caos. Anche se il 30 per cento dei brasiliani potrebbe essere già stato esposto al virus in grandi città come Rio de Janeiro e São Paulo, Dalcolmo prevede che l’epidemia durerà altri due anni.

Il mondo avrebbe potuto essere risparmiato dalla pandemia? Per rispondere è necessario analizzare due aspetti della questione. Innanzitutto, bisogna chiedersi quanto erano preparate le società all’emergere, quasi inevitabile, di una malattia per cui gli esseri umani non avevano sviluppato forme d’immunità. In secondo luogo come l’hanno gestita quando è arrivata.

Gli infettivologi avvertivano da decenni che sarebbe scoppiata una pandemia. È stato pericoloso classificare alcuni agenti patogeni come “malattie tropicali” nell’epoca dei viaggi aerei, che potevano portare queste infezioni in qualsiasi parte della Terra. “Penso che la mentalità occidentale abbia sempre limitato questa minaccia al mondo in via di sviluppo, specialmente all’Africa”, afferma Nkengasong. “L’idea era che la ‘medicina tropicale’ riguardasse solo ‘le persone che vivono in Africa e ai tropici’, considerati un ‘museo delle malattie’”.

Nel 1981 Richard Krause, l’allora direttore dell’istituto statunitense per le allergie e le malattie infettive, disse al parlamento del suo paese: “Le epidemie sono una certezza, quanto la morte e le tasse”. Jonathan Mann, un pioniere della ricerca sull’hiv, scriveva che l’aids poteva insegnare all’umanità “che un problema di salute nato in qualsiasi parte del mondo può rapidamente diventare un problema di salute per molti o per tutti”. Il mondo aveva un disperato bisogno di un “sistema di monitoraggio e allerta” per individuare le nuove malattie. Senza, avvertiva Mann, “ci troveremo indifesi”.

Le epidemie di ebola scoppiate in Africa a partire dal 1976, quella di sars in Cina nel 2003 e l’influenza suina in Messico nel 2009 hanno dimostrato quanto possono essere devastanti alcuni agenti patogeni. L’ebola ha provato che anche la malattia più “esotica” e spaventosa poteva diffondersi dall’Africa occidentale, dove ha ucciso 11.300 persone, a città come Dallas e Glas­gow. La sars è arrivata negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda e in Sudafrica, contagiando un totale di 8.096 persone e uccidendone 774. Il ceppo virale H1N1, all’origine dell’influenza suina, è passato dal Messico agli Stati Uniti per poi infettare tutto il mondo, causando ufficialmente 18.449 morti.

Nairobi, Kenya, 7 luglio 2020 (Boniface Muthoni, Sopa Images/LightRocket/Getty Images)

Il paradosso del progresso

Eppure l’occidente non ha perso il suo falso senso di sicurezza. Gli esseri umani hanno fatto notevoli passi avanti nella lotta alle infezioni grazie ai progressi nella salute pubblica. La diffusione degli antibiotici dagli anni quaranta in poi ha contribuito a rafforzare il senso d’invincibilità. Negli anni settanta fu eliminato il vaiolo. Nel 2001, nei paesi ad alto reddito, solo il 6 per cento delle morti era legato a malattie infettive. Veniva da pensare che le malattie causate da batteri, virus, parassiti e protozoi potessero essere debellate.

Ma era una conclusione sbagliata. La percentuale di persone che muoiono per malattie infettive è probabilmente diminuita, ma nuove forme di contagio, diffuse dagli animali, stanno prendendo piede. Paul Hunter, professore di medicina all’università dell’East Anglia, afferma che tra il 1940 e il 2004 ne sono state scoperte negli esseri umani 335.

Il persistere della minaccia microbica è in parte una conseguenza paradossale del progresso. Le scoperte nei campi della nutrizione e della medicina hanno permesso alla popolazione di crescere dagli 1,6 miliardi del 1900 ai 7,8 di oggi. Gli esseri umani vivono in centri urbani in espansione. Quando hanno invaso le foreste pluviali, le persone e i loro animali domestici sono entrati in contatto con la fauna selvatica. Secondo la Banca mondiale, tra il 1970 e il 2018 il numero di passeggeri dei voli aerei è passato da 310 milioni a 4,2 miliardi, facendo incontrare persone da ogni angolo del pianeta. Un paradiso per i microbi.

A questo va aggiunto il commercio di animali selvatici, che ha fatto arrivare specie esotiche nei mercati della Cina, del sudest asiatico e altrove. Se le comunità isolate mangiando carne selvatica contraggono una nuova malattia, questa tende a estinguersi. Ma se gli animali vengono portati in città densamente popolate, una nuova malattia può diffondersi rapidamente. “Se questo commercio fosse stato fermato, l’epidemia di covid-19 quasi certamente non sarebbe scoppiata”, afferma Hunter.

Gli esseri umani erano impreparati ad affrontare una pandemia anche per un altro motivo, sostiene William Haseltine, scienziato e imprenditore statunitense, esperto di aids e dell’uso della genomica per la scoperta di nuovi farmaci: la ricerca scientifica non si è interessata ai pericoli più gravi.A parte il caso dell’hiv, che ha visto alcuni gruppi di pressione impegnarsi con successo nella ricerca di finanziamenti, l’interesse per le nuove malattie è stato limitato. Haseltine fa l’esempio della sars, che come il covid-19 è causata da un coronavirus individuato nei pipistrelli. Inizialmente i finanziamenti pubblici si erano concentrati sulla ricerca di una cura. “Nei primi tempi gli studiosi di tutto il mondo hanno fatto sforzi enormi. Ma, dopo circa nove mesi, quando la minaccia è svanita, è stata staccata la spina”.

Senza fondi

È successo lo stesso con la sindrome respiratoria mediorientale (mers), causata da un altro coronavirus, trasmesso dai cammelli. Nel 2012, dopo un’epidemia di mers in Arabia Saudita, erano partite molte ricerche. “Poi hanno staccato di nuovo la spina”, spiega Haseltine. “Era praticamente impossibile ottenere dei fondi, anche se gli avvertimenti erano chiari”. Non sono stati completati gli studi clinici di nessun farmaco che avrebbe potuto trattare o prevenire le malattie causate da coronavirus.

Da sapere
Misure severe fin dall’inizio
Il Government stringency index, un indicatore elaborato dall’università di Oxford, misura la severità dei provvedimenti presi dai governi per contenere i contagi. Valori da 0 a 100 (100 = il più rigoroso) (FONTE: FINANCIAL TIMES, CORONAVIRUS GOVERNMENT RESPONSE TRACKER)

Haseltine cita la ricerca sugli inibitori della proteasi, come quelli usati contro l’hiv per bloccare un enzima che i virus sfruttano per moltiplicarsi. “Quel farmaco funziona bene sia negli esperimenti di coltura di tessuti sia in quelli sugli animali contro il sars-cov-1 e il sars-cov-2. Se avessimo testato questo e altri farmaci sugli esseri umani, forse in Cina non sarebbe morto nessuno”, dice. “Quelle sostanze, se somministrate in via profilattica alle persone più a rischio, quasi certamente avrebbero fermato la diffusione del covid-19 sul nascere”.

La maggior parte dei fondi, specialmente quelli delle aziende farmaceutiche, è stata spesa per le malattie cardiache, il cancro, le malattie renali, il diabete e forme degenerative come l’Alzheimer. Queste malattie hanno due cose in comune: non sono infettive e colpiscono le persone ricche. “Si parla spesso di un ciclo di espansione e contrazione degli investimenti per prepararci alle minacce pandemiche”, afferma Thomas Bollyky, che dirige il programma sanitario globale presso il Council on foreign relations statunitense. “Ma in realtà c’è stata solo una contrazione”.

Secondo Trudie Lang, direttrice del Global health network del Nuffield department of medicine dell’università di Oxford, ci sono due grandi ostacoli al finanziamento della ricerca sulle malattie infettive. Uno è tecnico: i test possono essere eseguiti solo dopo che è scoppiato un focolaio. E poi la finestra di tempo prima che la malattia scompaia è molto stretta. Lo ha scoperto a sue spese chi ha fatto ricerca sui vaccini contro i coronavirus: è difficile dimostrare l’efficacia di un vaccino se il virus non è più in circolazione.

Da sapere
La seconda ondata

◆ Il 10 dicembre 2020, dopo aver registrato più di seimila contagi da covid-19 al giorno e un tasso di positività ai tamponi quasi del 18 per cento, il Sudafrica ha annunciato l’inizio della seconda ondata. A differenza della prima, la malattia si diffonde soprattutto tra i giovani (15 -19 anni), che hanno molti contatti e sono spesso asintomatici. Anche i paesi del Nordafrica, come Algeria, Marocco ed Egitto, hanno visto aumentare i contagi a novembre. Mentre nel resto del mondo cominciano le campagne di vaccinazione, secondo i calcoli dell’ong Oxfam anche se fossero approvati tutti e cinque i candidati vaccini attualmente più avanti nella sperimentazione, il 61 per cento della popolazione mondiale non li riceverebbe prima del 2022, scrive Le Monde.

Oltre all’iniziativa Covax, un sistema di finanziamento coordinato dalla Gavi alliance e dall’Organizzazione mondiale della sanità per un’equa distribuzione dei vaccini, un altro aiuto potrebbe arrivare dalla Cina, scrive il South China Morning Post: il governo di Pechino ha promesso che i paesi africani saranno tra i primi, dopo la Cina, a ricevere i farmaci sviluppati dalla Sinovac, dalla CanSino e dalla Sinopharm. Quest’ultima sta conducendo test in Marocco, con l’intenzione di produrre il farmaco lì in un secondo momento.


L’altro ostacolo, afferma Lang, è che la maggior parte delle sovvenzioni è destinata a équipe guidate da ricercatori superstar delle università famose, che di solito si trovano nei paesi occidentali. Questo esclude le ricerche altrettanto meritevoli dei paesi a reddito medio e basso. “Il novanta per cento delle ricerche va a vantaggio del 10 per cento della popolazione mondiale”, spiega Lang.

Fallimento di mercato

Shahid Jameel afferma: “La grande industria farmaceutica ha smesso d’investire nelle malattie infettive. Si prescrivono antibatterici o antivirali finché l’infezione scompare. Invece, quando un paziente comincia a prendere statine o farmaci contro il diabete, continua per tutta la vita. _Big pharma _investe nelle malattie croniche perché ci guadagna di più”. Il linguista e attivista politico Noam Chomsky lo ha detto in modo ancora più crudo, definendo l’incapacità di prepararsi a combattere il coronavirus “un colossale fallimento del mercato”. Per le aziende farmaceutiche, ha dichiarato Chomsky in una recente intervista, “produrre nuove creme per il corpo è più redditizio che trovare un vaccino che protegga le persone da una catastrofe”.

Secondo Laurie Garrett si è passati da una concezione della salute come bene pubblico a qualcosa di essenzialmente individuale. Nel libro _Betrayal of trust _(La fiducia tradita) scrive che per prevenire la “prossima pestilenza” di cui parlava nel suo libro precedente non basta adottare una “soluzione tecnologica”: serve un’infrastruttura sanitaria pubblica globale di sorveglianza e prevenzione, una diga per “trattenere il fiume di microbi e agenti patogeni”.

Ma la sanità è sotto attacco. In alcuni paesi ricchi c’è una rivolta contro i vaccini, l’ultimo bene pubblico. Prima di ammalarsi di covid-19, il primo ministro britannico Boris Johnson si era opposto a una tassa sullo zucchero, che gli esperti sanitari sostenevano potesse aiutare la lotta all’obesità, ma che molti britannici consideravano un’inutile intrusione dello stato nella vita delle persone. Nei paesi poveri la salute pubblica è ancora più importante, sebbene sia ancora più trascurata. Nel 2017 la Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, ha speso per la sanità l’equivalente di 74 dollari pro capite, meno di un centesimo degli ottomila dollari stanziati dalla Norvegia. “Il più grande errore che abbiamo commesso è trascurare l’aspetto pubblico dalla salute”, afferma Oyewale Tomori dell’Accademia delle scienze nigeriana.

Se la salute diventa una questione di responsabilità individuale, avvertono gli esperti, le tecnologie sono considerate l’arma principale contro le malattie. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il brasiliano Bolsonaro hanno insistito sulla ricerca di una cura miracolosa invece di sottolineare l’importanza del duro lavoro di risposta alla pandemia. Secondo Hunter, la prevenzione ha un grande problema, è invisibile: “Nessuno si accorge se fermi un’epidemia sul nascere. Se ne accorgono solo se non lo fai”.

Da sapere
Il fattore età

◆ L’Africa ha una popolazione complessiva di 1,35 miliardi di persone, il 17 per cento di quella mondiale, con un’età mediana di 19,4 anni. I colori nella mappa indicano la percentuale della popolazione che ha più di 65 anni. Fonte: Banca mondiale


Prevenire sempre

Il covid-19, quindi, è esploso in un mondo che aveva ignorato gli strumenti necessari a combattere una pandemia: la ricerca sulle malattie infettive e gli investimenti nella sanità pubblica. Anche quando la notizia di un nuovo coronavirus in Cina ha cominciato a circolare in Europa e in America, stranamente le autorità non si sono allarmate. Questo potrebbe essere dovuto, in parte, all’occultamento iniziale delle informazioni da parte di Pechino. “Per le prime tre settimane critiche non c’è stata la trasparenza che serviva per contenere l’infezione”, afferma Bollyky. “La Cina ha una parte di responsabilità, anche se non tutta, per quello che è successo”.

La chiusura di Pechino ha mostrato la mancanza di autorità dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che non può costringere i singoli paesi a divulgare le informazioni di carattere sanitario.

“Dovremmo fare meno affidamento sul rispetto delle regole e sulla trasparenza degli stati riguardo ai nuovi contagi”, afferma Bollyky. “L’Oms deve affrontare molto sfide, ma penso abbia sbagliato a elogiare la Cina per le prime misure adottate. Così ha danneggiato la propria credibilità”. Eppure, a metà gennaio, avrebbe dovuto essere ovvio che il virus partito da Wuhan aveva le caratteristiche di una pandemia globale. Alcuni paesi, in particolare nel nord e nel sudest asiatico, hanno preso sul serio la minaccia. Questo in parte perché avevano subìto l’impatto devastante, anche economico, della sars. Altri – tra cui gli Stati Uniti, il Brasile e in parte anche il Regno Unito – hanno sottovalutato il pericolo.

“I paesi che si sono mossi in modo deciso e hanno adottato misure la cui efficacia per fermare le infezioni è provata, come tamponi, identificazione dei casi, tracciamento dei contatti, isolamento e quarantena, hanno ottenuto buoni risultati”, spiega Bollyky. “Perfino paesi che non avevano grandi risorse, come il Viet­nam, hanno introdotto misure collaudate”.

Haseltine sostiene che, per sconfiggere una pandemia, gli stati hanno bisogno di almeno due di queste tre qualità: leadership, efficienza e solidarietà. Gli Stati Uniti, dice, non hanno nessuna delle tre in quantità sufficiente e ne hanno pagato le conseguenze. “Per efficienza, intendo un sistema sanitario pubblico in grado di mettere in atto politiche a livello nazionale. La Cina ce l’ha, come la maggior parte dei paesi europei. Quando Trump dice ‘non è un mio problema’, in parte ha ragione. Lo stesso tipo di organizzazione caotica, di mancanza di controllo centrale e di capacità di applicare le politiche sanitarie esistenti, si rifletterà nella distribuzione dei vaccini”, immagina Haseltine.

“Penso che i paesi che si sono comportati bene abbiano seguito la scienza e i paesi che hanno agito male non l’abbiano fatto”, afferma Jameel. “La Cina è stata molto autoritaria, ma ha ascoltato i suoi scienziati”. Eppure anche Pechino è stata colta alla sprovvista da un evento prevedibile.

I governi, come le persone, non riescono a pianificare gli eventi imprevedibili, afferma Mukherjee. “Nella sanità pubblica bisogna ragionare a lungo termine. Sarebbe stato più utile finanziare il tracciamento dei contatti per cent’anni che spendere miliardi di dollari in aiuti economici”, dice riferendosi ai soldi spesi dai governi dopo che il covid-19 ha paralizzato le economie di tutto il mondo.

“Viviamo sempre in modalità reattiva”, osserva Jameel, “mai in modalità preventiva”. Non è facile essere lungimiranti, ma non possiamo dire di non essere stati avvertiti. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati