La decisione di Donald Trump di consentire a Israele di attaccare l’Iran è il peggiore errore di valutazione fatto da un presidente degli Stati Uniti da quando George W. Bush invase l’Iraq nel 2003. La decisione di Bush segnò l’inizio di otto anni di conflitto in Iraq, uccise 655mila persone secondo la rivista The Lancet, fece emergere il gruppo Stato islamico e portò un grande paese sull’orlo del collasso, una situazione da cui quattordici anni dopo non si è ancora risollevato.

La decisione di Trump potrebbe dimostrarsi ancora più disastrosa. Avere consentito al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di attaccare l’Iran mentre gli inviati di Washington erano impegnati nei negoziati con Teheran, mette la presidenza degli Stati Uniti allo stesso livello di affidabilità di Al Capone o di Joaquín “El Chapo” Guzmán. Si comporta così il capo di un cartello della droga, non una potenza mondiale. Chi si fiderà ora della parola di Washington? Presto o tardi una potenza in declino come gli Stati Uniti si accorgerà di avere bisogno della fiducia degli altri.

Come al solito, Trump e la sua combriccola non hanno la minima idea di cosa hanno fatto. Gongolano per l’inganno compiuto, se la ridono per aver beffato i diplomatici iraniani. I droni israeliani hanno colpito i bersagli a casa loro, nel letto, oppure li hanno attirati verso le loro basi, dove sono stati eliminati. Tel Aviv e Washington lo considerano un gran colpo.

Dopo essersi vantato del suo inganno, Trump ha intimato agli iraniani di tornare al tavolo dei negoziati o prepararsi a conseguenze peggiori. “L’Iran deve fare un accordo, prima che non resti niente, e salvare quello che un tempo era conosciuto come l’impero iraniano. Basta morte, basta distruzione, fatelo prima che sia troppo tardi. Dio vi benedica tutti!”, ha scritto sul social media Truth. È la cosa più stupida che potesse dire a un paese di 92 milioni di abitanti con una storia millenaria.

È ancora più stupido se si pensa a quello che ha vissuto l’Iran per otto anni quando fu attaccato dal presidente iracheno Saddam Hussein con il sostegno occidentale. È stata quell’esperienza amara, non meno dell’ideologia della Repubblica islamica, a plasmare la politica estera iraniana. Il suo programma di arricchimento nucleare e l’arsenale di razzi sono stati temprati nel fuoco della guerra contro l’Iraq. Come Netanyahu, il dittatore iracheno lanciò una guerra quando riteneva che il suo vicino fosse al culmine della vulnerabilità. Il 22 settembre 1980 la guida suprema iraniana, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, arrivato al potere un anno prima, era alle prese con il caos postrivoluzionario. Non aveva un esercito, dissolto in gran parte con la caduta dello scià. Disponeva di una combinazione di forze regolari e del corpo dei Guardiani della rivoluzione islamica, appena formato e mai testato sul campo, ma era a corto di armi. Le forze di Saddam all’inizio avanzarono rapidamente, ma poi furono respinte pagando un alto prezzo in termini di vite umane.

L’asse indebolito

Come Netanyahu oggi, Saddam era sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Europa. Ottenne le risorse per produrre armi chimiche da aziende tedesche, che fornirono al paese le tecnologie e i precursori necessari alla fabbricazione dell’iprite, del sarin, del tabun e di altri agenti chimici.

La direttiva di sicurezza nazionale 114 del 26 novembre 1983 chiarì qual era l’obiettivo degli Stati Uniti: proteggere le sue forze militari e le sue forniture petrolifere nel Golfo. Le armi chimiche di Saddam non preoccupavano l’allora presidente Ronald Reagan. Ma un’intera generazione di iraniani non dimenticherà mai quegli attacchi con i gas di cui i veterani soffrono ancora oggi le conseguenze.

Teheran, 14 giugno 2025 (Khoshiran, Middle East Images)

È stata quella guerra sanguinosa e selvaggia, alla fine vinta dall’Iran, a forgiare la determinazione di Teheran ad addestrare e costruire come forma di difesa una rete di gruppi armati attivi dal Mediterraneo ai suoi confini. È chiaro che l’“asse della resistenza” dell’Iran oggi è più debole di due anni fa. I vertici dei Guardiani della rivoluzione e della milizia libanese Hezbollah, insieme alle loro case e famiglie, erano stati localizzati e selezionati come bersagli dal Mossad prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Il fatto che Hezbollah oggi sia incapace di correre in aiuto dell’Iran nell’ora più buia per il suo protettore dimostra quanto sia profondo il colpo inferto da Israele. Durante il conflitto scoppiato lo scorso settembre le unità di Hezbollah al confine hanno bloccato le squadre speciali israeliane. Tuttavia, il cessate il fuoco firmato a novembre è stato il segnale di una sconfitta senza precedenti. Ma quelli che sono considerati errori strategici di Hezbollah e dell’Iran in Libano – non aver risposto prima e con maggior forza agli attacchi israeliani e non aver raggiunto un equilibrio di potere con Israele – ora potrebbero essere letti come una forma di moderazione strategica. Né l’Iran né Hezbollah volevano entrare in una guerra aperta su vasta scala con Israele dopo gli attacchi di Hamas. La loro moderazione è stata interpretata da Netanyahu come una debolezza e un incoraggiamento ad attaccare.

Come Saddam nel 1980 o Bush nel 2003, Netanyahu sta scommettendo tutto su una guerra breve e su una rapida capitolazione dell’Iran. Ma a differenza di tutte le altre guerre combattute da Israele dopo il 1973, gli aerei israeliani oggi attaccano un vero esercito e un vero stato. L’Iran ha una sua profondità strategica. Ha centrifughe per l’arricchimento dell’uranio sepolte sottoterra. Potrebbe chiudere in un batter d’occhio lo stretto di Hormuz, dove passa il 21 per cento del traffico petrolifero mondiale. Ha potenti alleati in Russia e in Cina. Gli ucraini dicono che Mosca ha lanciato ottomila droni iraniani Shahed dallo scoppio della guerra nel febbraio 2022. Presto potrebbe arrivare il momento in cui Teheran chiederà alla Russia di restituirgli il favore fornendogli le sue batterie di difesa antiaerea S-400.

Incentivo finale

Il presidente russo Vladimir Putin è già convinto di essere in guerra con l’occidente, nonostante la vicinanza con Trump. Le sue relazioni con Netanyahu, un tempo talmente strette che gli israeliani erano riusciti a fermare la fornitura di sistemi di difesa aerea russi all’Iran, sono completamente rovinate. Mosca potrebbe permettere a Israele, armato dagli Stati Uniti, di rovesciare l’Iran dopo la fuga di Bashar al Assad in Siria? È una questione che Netanyahu e Trump dovrebbero prendere in considerazione. Nel fine settimana Trump ha avuto una conversazione di cinquanta minuti con Putin.

Netanyahu dovrebbe anche valutare cosa fare se la guerra durerà più di due settimane e se l’Iran non sventolerà bandiera bianca. Lo stesso dovrebbero fare quegli stati del Golfo che hanno speso 4.500 miliardi di dollari in contratti per armi statunitensi e mazzette nelle tasche di Trump, pensando di aver convinto gli Stati Uniti a non attaccare i miliziani sciiti huthi nello Yemen. Più la guerra si prolunga, più è grande il rischio che l’incendio si diffonda agli stabilimenti petroliferi e di gas del Golfo, estremamente vulnerabili. Israele ha attaccato gli impianti iraniani della raffineria di gas di Fajr Jam e il giacimento di gas South Pars nella provincia di Bushehr. L’Iran ha risposto colpendo le raffinerie di petrolio intorno a Haifa.

In Israele il clima di euforia per aver annientato la leadership militare e nucleare iraniana si è rapidamente dissolto, dopo che l’Iran ha inflitto ad alcune aree del centro del paese lo stesso genere di distruzione causato dallo stato ebraico a Gaza e in Libano. Per varie notti gli israeliani hanno vissuto lo stesso terrore imposto ai loro vicini. Stanno scoprendo cosa significa perdere l’impunità che credevano fosse un loro diritto.

Se Israele continuerà a essere tempestato dai missili iraniani, Netanyahu penserà sempre più a come coinvolgere direttamente gli Stati Uniti nella guerra. Un’operazione sotto falsa bandiera contro una base statunitense in Iraq per far ricadere la colpa sull’Iran sarebbe un’opzione allettante per Netanyahu. Trump finora è stato uno strumento nelle sue mani.

Per quanto riguarda il futuro del nucleare in Iran, se l’attacco unilaterale di Netanyahu e Trump avrà successo, fornirà a Teheran l’incentivo finale per ottenere una bomba utilizzabile nel più breve tempo possibile. La relativa debolezza delle armi convenzionali di Teheran e la sua vulnerabilità agli F-35 spingerà l’Iran a ragionare con la stessa logica usata da Putin, che in una certa fase della guerra in Ucraina pensava di essere sul punto di perdere la Crimea. Così ha minacciato di usare un missile nucleare tattico, e Joe Biden l’ha preso sul serio.

Se Trump e Netanyahu pensano di distogliere l’Iran dall’obiettivo di ottenere una bomba atomica smantellando i suoi mezzi convenzionali di autodifesa, si sbagliano di grosso. Qualsiasi esperto di nucleare che abbia fatto simulazioni di questi scenari dirà che più le forze convenzionali sono deboli e poco affidabili, più una potenza dipenderà dai suoi ordigni nucleari e più sarà disposta a usarli come prima opzione. Non ci sono ancora indicazioni che questo sia il ragionamento della guida suprema o del governo iraniano, ma nell’opinione pubblica in Iran – anche prima dell’attacco – è presente una maggioranza favorevole alla bomba atomica. Trump ha detto che gli Stati Uniti non tollereranno una Corea del Nord nel Golfo, ma è proprio quello che potrebbe ottenere permettendo a Israele di bombardare l’Iran. Anche se questa guerra si fermasse, il prezzo della pace e della stabilizzazione del programma iraniano di arricchimento dell’uranio ormai si è alzato. ◆ fdl

David Hearst è cofondatore e direttoredi Middle East Eye, un sito indipendentedi analisi sul Medio Oriente.

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati