“L’occupazione (Israele) non deve ostacolare l’attuazione del piano del presidente Trump. Se ha intenzioni reali di raggiungere un accordo, Hamas è pronto”, ha affermato il 5 ottobre all’agenzia France-Presse un alto responsabile del movimento palestinese, in vista dei colloqui indiretti con i negoziatori israeliani riuniti lo stesso giorno a Sharm el Sheikh, in Egitto. L’obiettivo dei colloqui è definire i dettagli dell’accordo presentato da Donald Trump per mettere fine alla guerra a Gaza e consentire il ritorno in Israele di tutti gli ostaggi, vivi o morti. Il messaggio è chiaro: Hamas è pronto a rispettare l’accordo se Israele sospenderà tutte le operazioni militari nella Striscia di Gaza e si ritirerà dal territorio. Un “sì, ma” che arriva nel braccio di ferro in cui Trump fa l’arbitro principale, determinato a essere la persona che avrà strappato la pace dopo due anni di devastazione.
Soddisfatto dei segnali inviati da Hamas, il 3 ottobre il presidente statunitense aveva intimato al suo alleato israeliano di “fermare immediatamente i bombardamenti su Gaza”, preoccupandosi solo della restituzione degli ostaggi. Da parte israeliana, la tregua richiesta si è trasformata in un cambiamento strategico e l’esercito ha annunciato che, dalla notte tra il 3 e il 4 ottobre, avrebbe compiuto solo operazioni “difensive” e non offensive, anche se le conseguenze di questa distinzione sul campo sono difficili da definire.
Interessi nascosti
L’annuncio ha un unico obiettivo secondo Nicholas Heras del New lines institute, un centro statunitense che si occupa di affari internazionali: “Netanyahu cerca di usare l’accordo come espediente per placare sia gli oppositori politici sia gli alleati. In realtà la politica israeliana non è pronta a un ritiro completo da Gaza in tempi brevi”. Né a interrompere le operazioni militari. Nonostante una leggera diminuzione dei bombardamenti, violente esplosioni hanno colpito gli edifici di Gaza, da cui sono fuggiti 900mila abitanti. Secondo il ministero della salute dell’enclave, il 5 ottobre, nell’arco di ventiquattr’ore, sono stati portati negli ospedali della città i corpi di 65 persone e di 153 feriti.
Se è chiaro che la liberazione degli ostaggi darà una vittoria politica al governo Netanyahu, non sarà sufficiente per ottenere una vittoria militare. Mentre l’accordo prevede un ritiro graduale di Israele (senza un calendario preciso), dal punto di vista della coalizione di estrema destra lasciare Gaza senza il disarmo di Hamas è un orizzonte inaccettabile. Il governo israeliano infatti ha sempre sbandierato due obiettivi di guerra: la smilitarizzazione dell’enclave e il disarmo di Hamas. Potrebbe quindi sfruttare il piano di Trump a suo vantaggio per imporre una fine alla guerra in due fasi: prima la liberazione degli ostaggi, e poi continuare con le operazioni di smilitarizzazione. Questo giustificherebbe allo stesso tempo una presenza prolungata delle truppe a Gaza.
“Quelli che sostengono la linea dura nella coalizione di Netanyahu non vogliono ritirarsi da Gaza e non parleranno di vittoria finché non avranno la certezza che Hamas è disarmato e ridotto a una forza insignificante. Gli israeliani stanno cercando di trasformare i termini dell’accordo in un’occupazione di fatto a tempo indeterminato di Gaza”, insiste Heras.
◆ Il 6 ottobre 2025 sono cominciati a Sharm el Sheikh, in Egitto, i colloqui indiretti tra Israele e Hamas per mettere fine alla guerra nella Striscia di Gaza sulla base di un piano presentato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Secondo alcune fonti, le due delegazioni si trovano in piani diversi dello stesso edificio e i mediatori fanno la spola tra loro. La squadra di Hamas è guidata da Khalil al Hayya, sfuggito al raid condotto a inizio settembre da Israele contro i funzionari del movimento a Doha, in Qatar. Trump ha mandato in Egitto Steve Witkoff, inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente, e Jared Kushner, suo genero. Il 7 ottobre Israele ha commemorato il secondo anniversario degli attacchi di Hamas del 2023, che hanno ucciso 1.219 persone, per la maggior parte civili. Afp
Messo alle strette sulla scena internazionale e accusato dall’opinione pubblica interna di prolungare la guerra senza voler davvero riportare a casa i prigionieri, Netanyahu ha tutto l’interesse a soddisfare questa richiesta, dato che potrebbe giocarsi la sopravvivenza politica nelle elezioni legislative anticipate all’inizio del 2026. Una volta liberati gli ostaggi, la pressione popolare per mettere fine alla guerra si ridurrebbe, e il governo potrebbe continuare le operazioni se pensa che ci sia ancora una minaccia per la sicurezza finché l’enclave non sarà completamente smilitarizzata. “Gli israeliani sono convinti che molti paesi arabo-musulmani, che secondo il piano di Trump dovrebbero costituire una Forza internazionale di stabilizzazione (Isf), non vogliono realmente affrontare Hamas, far saltare in aria i suoi tunnel, eliminare i suoi impianti di produzione di armi, attaccare i suoi depositi di munizioni. E quindi pensano che se non lo fanno loro non lo farà nessuno”, spiega David Makovsky, direttore del Washington institute for Near East sul processo di pace in Medio Oriente.
A questo proposito, il piano di Washington rischia di essere piuttosto permissivo. Con molta vaghezza su tempi e dettagli sulla sua attuazione, potrebbe aprire una via d’uscita per Israele, consentendogli di riprodurre le manovre viste in Libano, ovvero un congelamento parziale del conflitto pur mantenendo una capacità di intervento regolare, anche se di bassa intensità. Nel testo proposto, le truppe israeliane si posizionerebbero ai margini della striscia di terra, controllando tutti i confini in un “perimetro di sicurezza” dai contorni e dalla durata indefiniti. Per quanto riguarda la gestione postbellica di Gaza, secondo la Cnn Trump ha dichiarato che Hamas rischia “la distruzione totale” se non rinuncia al potere. ◆ adg
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Questo articolo è uscito sul numero 1635 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati