Forse l’aspetto più sorprendente, nelle reazioni all’omicidio di Charlie Kirk, è il modo in cui le persone hanno cominciato a commentare senza sapere niente su chi lo aveva ucciso. Quando Elon Musk ha scritto su X che “la sinistra è la forza politica dell’omicidio”, la morte di Kirk non era ancora stata nemmeno confermata. Altri hanno incolpato i mezzi d’informazione, le ong e i miliardari che finanziano il Partito democratico. È così che funzionano gli algoritmi di internet. Il sistema non tollera il vuoto di informazioni. E quando mancano fatti o notizie credibili, i buchi vengono riempiti con esche per aizzare la rabbia, teorie del complotto, allarmismo e veleno.

Kirk era una figura politica, quindi la sua morte va inevitabilmente interpretata come un atto di violenza politica. Tuttavia, analizzare il suo omicidio solo da questa prospettiva potrebbe non essere sufficiente. La sera del 12 settembre, dopo l’arresto del presunto assassino, la macchina online che spara spiegazioni a catena si è di nuovo messa in moto. Qualcuno è andato a ripescare la presunta pagina Facebook della madre dell’attentatore, pubblicando una foto del 2017 in cui una persona che somiglia all’assassino è vestita da Donald Trump per Halloween. In altre foto prese dalla stessa pagina si vedevano dei bambini a una fiera di campagna. Uno di loro indossava un berretto della lobby delle armi (Nra). “È una famiglia appassionata di armi”, ha scritto un utente su X e su Bluesky, allegando una di quelle immagini e insinuando che il killer poteva essere un repubblicano.

Le persone non sanno come funziona l’algoritmo (è un segreto aziendale), quindi interagiscono alla cieca con la macchina

Un altro utente sosteneva di aver trovato tracce di una donazione fatta dall’attentatore a un comitato politico pro Trump. Poco dopo un giornalista ha chiarito che la notizia era falsa. Nella sezione “politicamente scorretto” del forum 4chan, utenti anonimi litigavano sull’ideologia dell’assassino. “Quindi non era un trans, eh? Era un maschio ed era bianco. Chi l’avrebbe mai detto…”, ha scritto uno. Altri si chiedevano quale potesse essere il legame tra l’omicidio e Jeffrey Epstein, l’imprenditore condannato per abusi sessuali e morto in carcere nel 2019.

Vita online e vita reale

Molte persone di destra che all’inizio avevano invocato una guerra civile sembravano spiazzate dalle prime notizie ufficiali. La parlamentare Nancy Mace, che aveva prese per buone le voci false secondo cui l’attentatore era transgender, ha scritto su X che si trattava di “un ragazzo smarrito” e ha promesso che avrebbe pregato per lui.

Da questo delirio collettivo si capisce che è in corso una battaglia per il posizionamento, in cui le parti in conflitto cercano di etichettare il killer o prenderne le distanze. È sempre legato al funzionamento degli algoritmi, una macchina della giustificazione in cui i fatti e le notizie non vengono riportati ma catalogati e poi rimodellati per rientrare in una determinata narrazione. I dettagli rivelati dal governatore dello Utah, Spencer Cox, alla conferenza stampa del 12 settembre suggeriscono un quadro più complesso di quanto sembri, come in altre sparatorie recenti. Secondo Cox il bossolo di un proiettile ritrovato sul posto aveva inciso “Notices bulges OwO whats this?”, un riferimento che pochi possono cogliere alla sottocultura furry (caratterizzata dall’interesse per personaggi antropomorfi), usato quasi sempre in senso dispregiativo. Su altri proiettili c’erano allusioni altrettanto oscure agli abissi di internet, tra cui una serie di frecce che corrispondono alle mosse da effettuare per sganciare una bomba nel gioco Helldivers 2. Su un altro bossolo c’era la frase “Se leggi questo sei gay lmao” (un acronimo inglese che si può tradurre con “mi sto spaccando dalle risate”). Più che evidenziare una particolare affiliazione politica, le frasi dimostrano che l’attentatore era molto attivo online.

Questa condizione – un giovane cecchino che sembra inconsapevole delle barriere che separano la vita online da quella reale – è diventata a sua volta meme inquietante. Due settimane fa mi sono occupato della sparatoria alla Annunciation catholic church di Minneapolis, in cui sono stati uccisi due bambini. Anche in quel caso l’attentatore era attivo in rete ed era legato a gruppi che non rientrano nelle tradizionali posizioni ideologiche. Si tratta di reti di contatti ibride che a volte diventano minacciose e popolate da persone frustrate, tra appassionati del massacro di Columbine, neonazisti, troll e adescatori di minori. Questi utenti cercano di ottenere l’approvazione del gruppo compiendo atti violenti e incitando gli altri a imitarli. Anche se possono scegliere un’estetica simile a quella dell’estrema destra, l’ideologia è definita soprattutto da un nichilismo egoista. Per loro l’omicidio è una forma estrema di provocazione e ciò per cui vogliono essere ricordati.

Da quel poco che sappiamo, il presunto assassino di Kirk non corrisponde perfettamente a questo profilo. Per prima cosa, ha voluto colpire una persona precisa invece di fare una strage. Sono due gesti orribili, ma diversi. Inoltre non si è ucciso nella speranza di diventare un “santo” online, come hanno fatto molti stragisti in passato. Allo stesso tempo, però, le frasi sui bossoli testimoniano il desiderio di rivolgersi a un pubblico e provocare i mezzi d’informazione e le forze dell’ordine a cui spetta il compito di trovare un movente.

Questi elementi mostrano quanto sia difficile avere certezze sulla morte di Kirk. Ma non importa: tante persone continueranno a usare la tragedia per attirare l’attenzione online. Ho l’impressione che molti resterebbero estremamente delusi se l’attentatore non dovesse rientrare in una cornice ideologica precisa. Forse è anche per questo che le incognite non impediranno alle parti interessate di etichettarlo. L’amministrazione Trump continuerà a sostenere che i suoi nemici sono mentalmente disturbati e vanno espulsi dal paese, come ha già fatto il consigliere Stephen Miller. Allo stesso modo, le persone che vogliono vedere l’attentato come un altro capitolo della guerra tra destra e sinistra continueranno a pensare che il paese sia sull’orlo di una guerra civile. Le dirette online, gli investigatori improvvisati, gli estremisti che inviano minacce di morte e i complottisti continueranno ad alimentare il dibattito. Nel frattempo l’organizzazione fondata da Kirk, Turning Point Usa, continuerà a vendere magliette commemorative con la foto di Kirk e un versetto della Bibbia, a 35 dollari l’una.

Il costo dell’attenzione

Gli attentatori che rientrano nello schema che ho descritto prima conoscono bene le dinamiche di internet. Cercano un pubblico, ma agiscono anche per suscitare una risposta del mondo, soprattutto quello online. “Se leggi sei gay lmao” è una frase terribilmente irriverente e nichilistica da scrivere su un bossolo di proiettile, ma il punto non è questo. Il punto è che la gente deve vederla. Il punto è che una persona come me deve scriverne, in modo che persone come voi la possano leggere e provare qualcosa: orrore, rabbia, confusione o tristezza. Magari molti attentatori non hanno un pensiero coerente né vere motivazioni politiche, ma sembrano conoscere alla perfezione l’ecosistema in cui riversano i loro terrificanti atti violenza.

Per alcuni le comunità online – annegate in un sarcasmo spinto all’eccesso, in contenuti spazzatura e liti infinite – sono più reali, o comunque più significative, di quelle fisiche. Con la loro violenza insensata, questi assassini trasferiscono una parte del caos online nel mondo reale, in cui esistono cose come la vita e la morte. Sanno che la loro violenza verrà appiattita, smontata, discussa e soprattutto amplificata dalla macchina della giustificazione. Così otterranno ciò che vogliono. La violenza non si fermerà.

In questo contesto si sovrappongono problemi molto diversi: l’epidemia di violenza provocata dalle armi, la polarizzazione politica sempre più accentuata e difficoltà sociali e culturali come la solitudine, l’alienazione e la sfiducia crescente nelle élite. C’è una quantità spaventosa di rabbia, in parte giustificata. Un giovane padre di famiglia è stato assassinato in un campus universitario. Pochi spazi, pubblici o privati, sembrano ormai al sicuro dalla minaccia delle sparatorie. Le istituzioni che un tempo agivano per il bene della comunità oggi sembrano paralizzate o indifferenti alla sofferenza, anche perché sono state parzialmente smantellate. L’economia funziona come un casinò e la sensazione è che le classiche strade verso la prosperità siano chiuse. Le persone sono prelevate per strada e arrestate senza che sia rispettato il loro diritto a un giusto processo. La lista è potenzialmente infinita.

Ogni minuto, tutti questi pensieri ed emozioni vengono riversati in piattaforme controllate da miliardari, costruite per sfruttare la pubblicità virale e raccogliere i dati personali. Internet non è un monolite: per ogni comunità di potenziali assassini ce n’è un’altra gioiosa e inoffensiva. Ma nel complesso è difficile non notare che c’è qualcosa di velenoso nell’architettura dei social e nel modo in cui la tecnologia richiede non solo la nostra attenzione ma anche le nostre emozioni, meglio se esasperate.

Queste piattaforme sono governate da algoritmi che tendono a dare la priorità al coinvolgimento degli utenti, amplificando la voce di quelli più rumorosi, perché saranno loro ad attirarne di nuovi. Quest’attenzione vale molti soldi, sia per chi la sa sfruttare sia per le aziende tecnologiche. Kirk lo sapeva ed è stato abile in questo gioco, usando i social per diffondere invettive, provocare i suoi avversari politici, polarizzare il suo pubblico e far crescere il suo movimento.

Le persone non sanno come funziona davvero l’algoritmo (segreto aziendale), quindi interagiscono alla cieca con la macchina, trasformando la conversazione in un continuo test per capire cosa funziona e cosa no. Perfino molti che comprendono queste dinamiche non riescono a resistere alla tentazione di intervenire in questi spazi, gli stessi che contribuiscono a far nascere e a perpetuare la violenza.

Quando ho saputo della morte di Kirk mi sono sentito male, non solo per il fatto in sé ma anche perché sapevo che avrebbe accelerato il tipo di violenza e di retorica rabbiosa che ci ha portati dove siamo. Sapevo cosa sarebbe successo: l’omicidio di Kirk avrebbe innescato una catena di dibattiti su temi delicati come la violenza da armi da fuoco, i disturbi mentali, la polarizzazione politica, il fascismo, la libertà d’espressione, i diritti dei transgender, la democrazia. E sapevo che questo dialogo si sarebbe svolto su piattaforme che ci spingono a essere la versione peggiore di noi stessi, che premiano l’indignazione e l’aggressività, che nascondono il contesto e che esistono per favorire il conflitto invece che la sua risoluzione. Continuare a discutere in questi spazi significa desiderare, anche se tacitamente, che non si arrivi mai a una soluzione. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati