“Si sta scaricando la batteria del telefono”, sono le ultime parole pronunciate da un uomo che si trovava su un gommone naufragato al largo della Libia il 21 aprile 2021. A bordo più di un centinaio di persone, e tra loro sette donne, di cui una incinta. Dei morti sappiamo poco, cominciano a circolare le loro foto e i loro nomi su internet. Un testimone che li ha visti partire la sera prima da Al Khoms, in Libia, ha detto che erano soprattutto sudanesi, insieme a nigeriani, maliani, ivoriani, senegalesi e ghaneani. Quella sera anche un altro gommone aveva preso il mare, poi è stato intercettato dalla guardia costiera libica. Il gruppo di volontari europei Alarm Phone ha ricevuto una prima chiamata, il 21 aprile alle 10.22.
Da quel momento sono state avvertite le autorità marittime libiche, maltesi e italiane. Nessuno è intervenuto. Alle 12 del 21 aprile in un’altra telefonata i naufraghi hanno detto che la benzina stava per finire, che le onde si stavano alzando e che anche la batteria del telefono satellitare si stava esaurendo. I volontari di Alarm Phone hanno continuato a chiamare la guardia costiera libica e la centrale operativa della guardia costiera italiana, senza ricevere risposta. Gli italiani dicevano ai volontari di contattare i libici, che dal 2018, nonostante le loro inadempienze documentate, hanno assunto il coordinamento dei soccorsi nelle acque internazionali davanti alla Libia. Alle 13.30 i naufraghi hanno chiamato di nuovo Alarm Phone dicendo: “Stiamo morendo”. Alle 14.44, chiamata dai volontari, la guardia costiera libica ha detto che la motovedetta Ubari era in cerca dell’imbarcazione. Alarm Phone ha poi contattato il mercantile Bruna, che ha detto di non poter intervenire perché non aveva ricevuto una segnalazione dalle autorità competenti. Alle 18.45 l’imbarcazione è stata avvistata da un aereo di Frontex (l’agenzia europea che sorveglia le frontiere e le coste dell’Unione). Nel frattempo la nave umanitaria Ocean Viking stava cercando un’altra imbarcazione partita da Zuwara, in Libia. Alle 20.15 l’ultima chiamata, poi più nulla. Le autorità libiche, chiamate ancora da Alarm Phone, hanno detto che le condizioni meteo non permettevano di cercare i naufraghi.
Un buco nero
La Ocean Viking ha raggiunto l’area del disastro alle 4.25 del mattino del 22 aprile e dodici ore dopo, insieme ad altri tre mercantili, ha trovato il gommone distrutto, circondato da dieci cadaveri tenuti a galla da camere d’aria e giubbotti salvagente. “Nessuno ha coordinato i soccorsi della nostra nave e degli altri tre cargo, era come muoversi al buio”, racconta Alessandro Porro, responsabile italiano di Sos Méditerranée, l’ong a cui fa capo la nave Ocean Viking. L’agenzia Frontex si è difesa affermando di avere “immediatamente allertato i centri di soccorso in Italia, Malta e Libia, come previsto dal diritto internazionale”. Ma il risultato è che 130 persone sono morte dopo aver chiesto aiuto per due giorni, senza risposta. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dall’inizio del 2021 i morti in mare sono 580. “Gli stati si sono rifiutati di agire per salvare la vita di più di cento persone. È questa l’eredità dell’Europa?”, ha commentato Safa Msehli, portavoce dell’Oim. Il naufragio del 21 aprile è l’ultimo di una lunga serie dovuta alla pericolosità della traversata, all’assenza di un coordinamento nei salvataggi e alla mancanza di mezzi navali di soccorso nel Mediterraneo centrale. La Ocean Viking era l’unica nave civile nell’area. Nell’ultimo anno molte navi umanitarie sono state sottoposte a fermo amministrativo per dei cavilli. Dal maggio del 2020 le ispezioni della guardia costiera italiana sono state frequenti e severe e hanno portato al blocco delle navi delle organizzazioni non governative per lunghi periodi.
Inoltre dal 2016 ci sono state sedici inchieste aperte dalle procure italiane, in cui le ong sono state accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Come emerge dall’articolo di The Intercept che pubblichiamo in queste pagine, l’insolito sforzo investigativo è stato coordinato dalla Direzione nazionale antimafia. L’inchiesta più nota è quella della procura di Trapani, che si è chiusa a marzo. Le 40mila pagine dell’indagine mostrano delle anomalie: sono stati intercettati operatori umanitari, giornalisti e perfino avvocati e parlamentari che non erano indagati.
La prima ong a pattugliare il Mediterraneo centrale è stata Migrant offshore aid station (Moas), nel 2014. Tra il 2015 e il 2016 undici ong si sono unite alla guardia costiera italiana e ai mezzi navali europei con 14 navi. Alla fine del 2016 la situazione è cambiata: gradualmente i mezzi europei si sono ritirati, passando il testimone alla Libia. Un ritiro cominciato con la firma nel 2017 del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, che prevedeva l’addestramento della guardia costiera libica, per farle assumere il coordinamento delle operazioni di salvataggio al largo del suo paese, un compito svolto fino a quel momento dai guardacoste italiani. Per questo nel 2018 la Libia è riuscita a farsi riconoscere dalle autorità marittime internazionali una zona di ricerca e soccorso (Sar) sotto il suo controllo.
I libici però non rispondono quasi mai alle chiamate di soccorso e i mezzi a disposizione sono pochi, inadeguati a pattugliare un tratto di mare così vasto. Le persone fermate dalla guardia costiera libica sono riportate nei centri di detenzione dove le Nazioni Unite hanno documentato “orrori indicibili”. L’esistenza della Sar libica è diventata l’alibi delle autorità italiane, maltesi ed europee per ritardare i soccorsi. Spesso il telefono dei libici squilla a vuoto e il maltempo può diventare un pretesto per sospendere i soccorsi.
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Questo articolo è uscito sul numero 1407 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati