Come se fare un figlio non fosse già abbastanza costoso, i padri dei nuovi nati nei borghi montani della val d’Ultimo devono sobbarcarsi una spesa ulteriore. Nella vallata, infatti, il vecchio mito della cicogna bianca che consegna i bambini è tornato in auge sotto forma di pennuti di legno messi davanti alle case.
Le sculture sono piazzate dagli amici del padre, e restano lì finché lui non mette mano al portafogli per offrire un giro di bevute.
“C’è stato un notevole aumento di cicogne e altri simboli della nascita davanti alle case, soprattutto negli ultimi anni”, spiega Stefan Schwarz, sindaco di Ultimo, comune di quasi tremila abitanti.
Ultimo accoglie circa quaranta neonati ogni anno. “Avremo bisogno di più asili nido e forse dovremo ampliare i locali delle scuole”, spiega Schwarz. I sindaci di molti altri centri italiani osservano la situazione di Ultimo con invidia.
Dal _ baby boom_ degli anni sessanta, infatti, il numero annuale di nascite nella quarta economia d’Europa si è ridotto di più della metà. Nel 2020 in Italia sono nati 404.104 bambini, quasi 16mila in meno rispetto al 2019. Non erano mai stati così pochi dall’unificazione nel 1861. Allo stesso tempo il divario tra nascite e decessi (746.146) è il più ampio mai registrato dai tempi della febbre spagnola del 1918.
L’Istat ha equiparato il calo della popolazione (384mila abitanti) alla scomparsa di una città delle dimensioni di Firenze.
Servizi di sostegno
Mentre il resto d’Italia affronta il drastico declino della natalità, la val d’Ultimo, insieme alla provincia di Bolzano, fa segnare una tendenza inversa. Nel 2019 l’area di Bolzano è stata l’unica in Italia a registrare più nascite che decessi. Anche se nel 2020 la provincia è tornata ad avere più morti rispetto alle nascite a causa del covid-19, ha comunque fatto segnare un record, con 9,6 neonati ogni mille donne.
La Sardegna, di contro, è caratterizzata dalla natalità più bassa in Italia, con 5,1 bambini ogni mille donne. Nel 2019 le donne di Bolzano avevano in media 1,7 figli, mentre la media nazionale era 1,27 e quella sarda appena 1. Debora Porrà, sindaca di Villamassargia, nel sudovest dell’isola, un comune di dimensioni paragonabili a Ultimo, combatte per tenere aperto l’unico reparto di maternità della zona. L’unità si trova nell’ospedale della provincia Sulcis-Iglesiente e serve anche le comunità di Villamassagia e Carbonia, per un totale di 120mila abitanti. In Italia un reparto deve avere almeno cinquecento nascite annuali per continuare a ricevere i fondi. “Quest’anno siamo riusciti a ottenere un rinvio della chiusura del reparto, anche se l’anno scorso abbiamo avuto solo trecento nascite”, spiega Porrà. Tra l’altro le donne della provincia non hanno accesso alle opzioni di parto indolore. L’assenza dell’epidurale non è rara in Sardegna e in altre aree dell’Italia meridionale. “Gli ospedali della nostra zona non hanno mai avuto servizi di analgesia. Quindi le donne sono costrette a sottoporsi a parti dolorosi o a spostarsi a Cagliari”, aggiunge.
Sarebbe facile attribuire il successo di Bolzano nell’aumento delle nascite solo alle disponibilità economiche. “Gli inverni qui sono lunghi”, scherza Schwarz. Altri abitanti concordano e aggiungono: “Le nostre tv non funzionano…”. In realtà uno dei motivi principali è una strategia politica avviata nel 2005 con l’erogazione di finanziamenti per le famiglie (dal sussidio mensile di maternità agli aiuti per l’acquisto della casa), a cui sono stati aggiunti servizi di sostegno come gli asili nido.
“Seguiamo una politica efficace. Non abbiamo pensato solo alla città, ma anche alle aree montane, creando servizi per la prima infanzia”, spiega Waltraud Deeg, vicepresidente della provincia di Bolzano e consulente per le famiglie.
All’inizio del nuovo millennio l’Alto Adige è stato il primo in Italia ad adottare il sistema delle Tagesmutter, o “madri per la giornata”, un concetto di assistenza all’infanzia nato nell’Europa del nord e basato sulla disponibilità di una donna a trasformare la propria casa in asilo e occuparsi di diversi bambini ogni giorno: fino a cinque, di età compresa fra tre mesi e tre anni. Dopo due anni di formazione, nel 2006 Sonja Spitaler è diventata Tagesmutter a Laives, un comune nella provincia di Bolzano. “All’epoca non era il lavoro dei miei sogni”, ricorda Spitaler. “Ma ho tre figli ed era la cosa più conveniente da fare. Volevo un reddito mio”. Il sistema ha permesso alle madri di lavorare e di creare nuovi posti di lavoro per le altre, e secondo Spitaler ha contribuito a eliminare l’idea che una donna è una “cattiva madre” se lascia il figlio all’asilo nido.
Nella provincia di Bolzano ci sono cinquanta Tagesmutter e sono attive 93 “microstrutture”, asili ospitati in grandi spazi che possono accogliere fino a 25 bambini. Il costo dei servizi è diviso tra il consiglio provinciale, il consiglio comunale e i genitori (in base al reddito). Inoltre ci sono diversi asili nido privati.
Aneta Ngucaj, originaria dell’Albania, è la proprietaria di Baby Puffo, una “microstruttura” divisa in tre sedi. Per ogni asilo Ngucaj ha cinque assistenti. “Abbiamo molti bambini dai tre mesi in su. Le madri li lasciano volentieri, durante il giorno restiamo in contatto inviando foto e video”. Uno degli assistenti di Baby Puffo è Sara Papasergio, che a 25 anni è in attesa del suo primo figlio. “Non avevo in programma di mettere su famiglia”, spiega. “Ma ora mi sento abbastanza sicura per farlo”.
Bolzano si distingue dal resto d’Italia per l’elevato numero di lavoratrici, soprattutto nel settore pubblico, in cui le donne rappresentano il 70 per cento del personale assunto. A livello nazionale meno del 50 per cento delle donne tra 15 e 64 anni ha un lavoro, molto al di sotto della media europea (67,3 per cento). Le disuguaglianze nel mercato del lavoro sono state inasprite dalla pandemia: nel 2020 le donne che lo hanno perso sono state 312mila, contro 132mila uomini. Questo è dovuto in parte al fatto che le donne lavorano più spesso nei settori duramente colpiti dalla pandemia, ma anche perché hanno contratti a tempo determinato, spiega Giorgia Serughetti, sociologa dell’università di Milano Bicocca. “Significa che nel momento in cui qualcosa cambia, per esempio si comincia una gravidanza, non si ha la garanzia di mantenere il posto di lavoro”.
Reparti maternità chiusi
Bolzano è “un’isola felice”, ma questo non significa che l’economia locale non abbia sofferto negli ultimi anni e non sia stata toccata dalle conseguenze della pandemia. Ma gli abitanti restano ottimisti. La stessa cosa non si può dire della Sardegna, dove il tasso di disoccupazione è elevato. “Se trovi lavoro lontano da casa è lì che metti su famiglia. Questo significa che abbiamo una popolazione sempre più vecchia e nessuno che si prenda cura degli anziani”, afferma Porrà.
Villamassargia è tra i centri abitati più poveri della zona. Ma pur riconoscendo che questa condizione ha contribuito al calo delle nascite, Porrà punta il dito contro l’assenza di una strategia politica. “Non abbiamo mai avuto un piano sociale serio”, dice la sindaca, “è inutile dare soldi alle persone senza creare servizi”. Porrà ha allestito l’unico asilo nido di Villamassargia. Intitolato a Rosa Parks, l’asilo può accogliere fino a 23 bambini. “È un grande sforzo che richiede molte risorse. E non ho mai ricevuto un centesimo dallo stato”.
Ada Prunas, ex infermiera del reparto maternità dell’ospedale di Lanusei, centro abitato nel sudest della Sardegna, dipinge un quadro simile. Quando nel 1980 cominciò a lavorare, a Lanusei nascevano circa settecento bambini all’anno. Quando è andata in pensione, a dicembre del 2020, erano trecento. “Oggi le donne pensano prima di tutto al lavoro, e formano una famiglia a 38 o a quarant’anni, prima cominciavano a venti”.
Se non inverte la tendenza, l’Italia andrà incontro a conseguenze sociali ed economiche devastanti. Nel 2020 il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato che la crisi demografica “è un problema che riguarda l’esistenza del nostro paese”. Il governo guidato da Mario Draghi ha cominciato ad adottare una strategia simile a quella di Bolzano. Da luglio le famiglie riceveranno 250 euro al mese per ogni figlio, fino al compimento dei 21 anni. Questa misura è il primo pilastro del cosiddetto Family act, che include un piano per raddoppiare il numero di asili in Italia, sostenere le donne nel mondo del lavoro affrontando la disuguaglianza, estendere il sussidio di paternità e aiutare i giovani a diventare indipendenti, assistendoli finanziariamente negli studi, nell’acquisto di una casa e nell’avvio di un’attività. Queste misure dovrebbero essere finanziate con una parte del piano dell’Unione europea per la ripresa.
“Non abbiamo mai avuto tanto denaro da investire. Abbiamo la responsabilità di fare le scelte giuste, perché queste risorse rappresentano un’opportunità non solo per far ripartire l’economia, ma anche per invertire la tendenza della natalità”, spiega Elena Bonetti, ministra per le pari opportunità e la famiglia. Uno degli obiettivi principali sarà aumentare il numero di donne lavoratici, “perché lo scarso impiego delle donne e il calo della natalità vanno a braccetto”, aggiunge Bonetti.
Tutto viene posticipato
Un sondaggio condotto a marzo ha rivelato una realtà sconfortante: più del 50 per cento dei giovani tra 18 e 20 anni non riesce a immaginare di avere figli in futuro. I motivi citati sono le scarse prospettive di lavoro e l’assenza di politiche familiari adeguate. Gli italiani restano in casa dei genitori a lungo, l’età media in cui vanno a vivere da soli è trent’anni. “Tutto viene posticipato: il lavoro, una famiglia… il progetto di fare una famiglia viene spesso rinviato o escluso del tutto”, spiega Gustavo De Santis, professore di demografia all’università di Firenze.
Il numero di single che vivono da soli è aumentato negli ultimi anni, insieme a quello delle persone che scelgono di non avere figli. Se l’esempio di Bolzano è un termine di paragone affidabile, potrebbero passare anni prima che si veda l’impatto delle politiche familiari varate in questo periodo. Ma per Deeg, vicepresidente della provincia di Bolzano, l’azione politica è indispensabile. “Investire sui bambini significa investire nel futuro”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1411 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati