Edimburgo, il romanzo di esordio di Alexander Chee, è uscito negli Stati Uniti nel 2001. Il libro racconta la storia di Aphias Zhe, detto Fee dagli amici, un ragazzo coreano-americano di dodici anni che cresce nel Maine e canta nel coro dei Pine state boys. È un bambino timido, fragile ma pieno di talento. Quando, pochi mesi dopo, lo scelgono come primo soprano del coro parte per un campeggio e comincia ad avere un rapporto ambiguo con il direttore del coro, Big Eric, che durante il viaggio di andata gli parla di “libertarianismo, nudismo e diritti dei bambini”. Quello che segue non è tanto il racconto dell’abuso subìto, quanto di quello che gli ha lasciato: il silenzio, la vergogna, il senso di colpa per non aver protetto il suo primo amore Peter dallo stesso destino. Fee diventa adulto portando dentro di sé ciò che lo divora, “un segreto che prende il mio posto”, come dice in una delle frasi più dolorose del romanzo. Fee è perseguitato dal proprio silenzio, da quella incapacità di parlare che lo lascia sospeso “come un sonnambulo che canta in sogno e ogni tanto si ridesta”. Quando torna nel Maine da insegnante, incontra un allievo che somiglia a Peter, e il cerchio si chiude: il passato riaffiora e il dolore si trasforma in racconto. La prosa di Chee è ipnotica, carica di presagi, punteggiata dai miti orientali che i nonni raccontano a Fee, in particolare quello del kitsune, la volpe mutaforma dal pelo fulvo. Ogni immagine, ogni metafora brucia di bellezza: “A volte ardo dall’interno, come un albero colpito dal fulmine: l’esterno intatto, l’interno ridotto in braci e cenere. Altre volte mi sento vuoto, trasparente, figlio del vento”. È un linguaggio che trasforma il trauma in canto, il dolore in poesia. Pur toccando temi strazianti, Edimburgo è un romanzo di rara grazia, capace di affrontare l’ambiguità del desiderio adolescenziale e la lunga ombra della vergogna senza mai indulgere nel compiacimento. Alla domanda inevitabile – quanto c’è di autobiografico? – Chee risponde nei suoi saggi: “Ho creato un mondo che conoscevo, non il mondo che conoscevo, e da lì sono partito”. Edimburgo è un’opera luminosa in cui l’esperienza più intima si fa racconto, e il dolore trova finalmente una forma. Lucy Scholes, Financial Times
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati