La giornalista britannica Phoebe Greenwood debutta nella narrativa con una satira amara ambientata a Gaza nel 2012. La protagonista, Sara Byrne, è una reporter mandata da un quotidiano “piuttosto di destra” a coprire il conflitto. Alloggia nel lussuoso Beach hotel, rifugio di corrispondenti stanchi e cinici, mentre fuori “Gaza è una prigione in guerra perenne”. Greenwood, che ha lavorato a Gerusalemme tra il 2010 e il 2013, conosce bene quel mondo: l’ossessione per lo scoop, le rivalità, il rapporto ambiguo con i fixer locali. Byrne visita obitori pieni di bambini con pigiamini di Spider Man e ospedali senza anestetici, ma i suoi capi vogliono titoli più sensazionali. Lei si spinge sempre più in là, decisa a entrare per prima in un tunnel di miliziani. Intorno a lei un fotografo muore e un bambino la accompagna tra le macerie tra scene di distruzione inimmaginabile. Greenwood costruisce un’eroina cinica, incapace o riluttante a provare emozioni di fronte all’orrore. Il titolo stesso suggerisce l’ambiguità morale della protagonista e il tono sarcastico del romanzo. Byrne scivola nella paranoia: crede che un uccello (un piccione ma forse proprio un avvoltoio) la segua e la tormenti. La scrittura rimane ironica e distaccata, evitando ogni melodramma. A volte l’impronta giornalistica di Greenwood risulta più efficace della sua prosa narrativa, ma Avvoltoi resta un esordio notevole: uno stile cupamente comico al servizio di una materia terribilmente seria.
Sophie Dickinson, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati