Forse Iconoclasts è un titolo poco adatto per il settimo album di Anna von Hausswolff. Dopo più di dieci anni di carriera, l’artista svedese si è costruita un seguito di culto grazie al suo suono inquietante e, appunto, iconoclasta. Ha trasformato la voce in un’arma, capace di urla, gemiti e lamenti; ha creato paesaggi sonori monumentali basati solo sull’organo da chiesa, sospesi tra drone music e canto gregoriano. Eppure con Iconoclasts tenta di incanalare questa potenza in forme più ordinate, dando vita a quello che definisce il suo album più “tradizionale”. Ciò non significa che rinunci alla sperimentazione: i fan del suo universo organistico ne ritroveranno lo splendore gotico. Ma questa svolta dà nuova linfa a un linguaggio che rischiava di diventare manieristico. L’album è attraversato dal sax febbrile di Otis Sandsjö: dolce e misurato in Aging young woman, devastante nella suite di quasi nove minuti Struggle with the beast. Lo strumento è una guida virgiliana in questo inferno dantesco della psiche, della fede e del peccato. Ciò che più colpisce di Iconoclasts è la sua sincerità: von Hausswolff abbandona le architetture sonore più imponenti e affronta temi di perdita, fede e amore. In Aging young woman, un duetto etereo con Ethel Cain, riflette sul tempo che passa e sul sogno di maternità che svanisce. In Facing Atlas, un’elegia mitologica, rincorre un amore perduto. E in The whole woman, cantata con Iggy Pop, il dialogo tra due anime erranti unisce disperazione e saggezza. In Iconoclasts vita e amore conquistano il centro della scena. Forse è qui che risiede l’iconoclastia dell’album.
Jude Jones, Clash
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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati