Kelly Reichardt ha un’avversione per l’ovvio. I suoi film (First cow, Certain women) sfidano con sottigliezza le nostre aspettative. A volte sembra interessata agli spazi e ai personaggi almeno quanto ai temi che affronta. Con leggerezza e ironia sembrano quasi contraddire la complessità delle storie che racconta. E i suoi film sono sempre molto più di quello che appaiono inizialmente. Prendete il suo ultimo dramma. Fondamentalmente è un heist movie in cui J.B. (Josh O’Connor) è convinto di aver messo a punto un crimine perfetto: il furto di quattro dipinti dell’artista Arthur Dove da un piccolo museo di provincia. Ciò che affascina Reichardt però non sono l’adrenalina e l’azione intorno al “colpo”, ma quello che viene dopo, un seguito cupo, languido e introspettivo. Alla fine il suo è il ritratto di un uomo qualunque che crede di essere speciale ed è costretto, lentamente e inesorabilmente, a prendere atto della sua mediocrità. O’Connor, sempre molto espressivo fisicamente, è fenomenale. Si sta chiaramente preparando a diventare uno dei migliori attori della sua generazione. Ma c’è dell’altro. The mastermind è più di un’analisi dei fallimenti di un uomo imperfetto. È una storia di insoddisfazione e dissenso. Siamo negli anni settanta, gli Stati Uniti sono in guerra in Vietnam. Il conflitto e le proteste echeggiano sullo sfondo. C’è una tensione snervante e litigiosa nell’aria e J.B., marito e padre di due figli che potrebbe aspirare a una vita perfettamente felice, ne rimane coinvolto.
Wendy Ide, The Observer
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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati