“Non è comoda, e non è particolarmente bella”, diceva nel 2019 Cate Le Bon della sedia costruita mentre preparava il disco Reward, dopo un anno immersa nell’ascolto di David Bowie e in un corso di design. Lo stesso vale per la sua musica: non consola, non esplode in ritornelli facili, ma provoca riflessioni profonde e spesso dolorose, offrendo il piacere di un’arte che non dev’essere comprensibile o allegra. “Non c’è ragione, ci sono ripetizione e caos”, spiega a proposito di Michelangelo dying, un album che funziona come un quadro imponente: ti cattura subito, senza logica apparente. In brani come Love unrehearsed si evocano i pittori rinascimentali e romantici. Le melodie, stratificate e raffinate, si spingono sempre verso un culmine drammatico o contemplativo. Accanto ai richiami a Bowie, ai Talking Heads e a Nico, emergono ombre di Siouxsie Sioux, Kate Bush, Elizabeth Fraser e John Cale, la cui voce roca appare in Ride. Il sassofono di Euan Hinshelwood è la spina dorsale del disco, abrasivo in Mothers of riches, sottile in Heaven is no feeling. Michelangelo dying nasce da una crisi personale: una separazione, la malattia e la stanchezza. Rasati i capelli, Le Bon affronta il dolore trasformandolo in qualcosa di più grande di lei, portando avanti le intuizioni dei suoi maestri senza paura. “È stato disorientante”, ammette. Ma quando chiede “ne è valsa la pena” nell’enigmatica Is it worth it (Happy birthday)?, la risposta spetta a noi.
Igor Bannikov, Clash

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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati