Mentre peggiorava la situazione umanitaria in Sudan, Alawiya Abkar e la sua famiglia hanno lasciato Al Fashir, il capoluogo del Darfur Settentrionale, per raggiungere Tawila, a 70 chilometri di distanza. I ripetuti appelli dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) ad abbandonare la città, su cui s’intensificano i bombardamenti, l’hanno convinta ad affrontare il pericoloso viaggio. Dall’aprile 2024 le Rsf assediano Al Fashir cercando di strappare all’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan la sua ultima roccaforte in Darfur.
Dai loro social media i paramilitari si sono impegnati a garantire un passaggio sicuro ai civili che vogliono lasciare la città. Ma in realtà questa offerta è piena di pericoli e i costi sono esorbitanti, l’ennesimo modo per i gruppi armati di trarre profitto dalla guerra. Le Rsf mettono a disposizione i loro veicoli per trasportare gli sfollati a Tawila, chiedendo circa 124 euro a persona, una cifra che pochi possono permettersi.
Insieme alla sorella e alla madre, Alawiya ha raggiunto Halat al Sheikh, un villaggio a pochi chilometri da Al Fashir, ma per proseguire verso Tawila le hanno chiesto 624 euro, una somma che lei poteva coprire solo in parte. Così ha dovuto chiedere aiuto al fratello. “Sono cifre enormi per chi ha vissuto per più di un anno sotto assedio”, spiega.
Un muro di terra
Le Nazioni Unite stimano che 260mila persone, per metà bambini, siano intrappolate ad Al Fashir. È invece impossibile stimare con esattezza quante ne rimangano nei vicini campi che accolgono gli sfollati, come Abu Shouk. A causa dei rischi elevati, le organizzazioni umanitarie non possono raggiungere l’area metropolitana di Al Fashir.
Chi resta in città deve fare i conti con i colpi d’artiglieria, gli attacchi dei droni e i vertiginosi rincari dei generi alimentari. Le Rsf hanno costruito intorno alla città un muro di terra lungo circa ventidue chilometri, lasciando solo due varchi dove far passare i civili. “Non avevamo scelta: se fossimo rimasti ad Al Fashir saremmo morti”, dice Awa Mohamed, una donna sfollata a Tawila. “Anche qui ogni giorno è una lotta, ma non rimpiangiamo di essere partiti”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 29. Compra questo numero | Abbonati