Thom Yorke e Mark Pritchard si sono incontrati per la prima volta nel 2012, durante una pausa del tour dei Radiohead a Sydney. Yorke, affascinato dai suoni elettronici di Pritchard, gli ha detto semplicemente: “Mandami quello che vuoi”. Quasi dieci anni dopo, durante la pandemia, hanno cominciato a lavorare a Tall tales. Yorke ha preso delle basi di Pritchard, le ha stravolte con sintetizzatori, bassi e stranezze vocali, per poi rimandargliele. Così è nato un progetto basato sul gioco e la libertà creativa. Metà del disco è puro divertimento: The white cliffs ricorda gli Air, The men who dance in stag’s heads rielabora i Joy Division in chiave medievale. In The spirit voce e synth si fondono in armonia, con un lirismo quasi ironico: “Vi auguro il meglio / prego per la pace”. Il resto è più ostico: l’inizio è lento, con pezzi come A fake in a faker’s world e Ice shelf che paiono troppo oscuri. Ma scavando sotto la superficie, emergono brani brillanti come Gangsters e Happy days, bizzarri ma irresistibili. Yorke gioca con la sua voce, mentre Pritchard costruisce paesaggi sonori pieni d’atmosfera. Tall tales non vuole essere spettacolare, ma è un viaggio tra intuizioni elettroniche e libertà espressiva. Un incontro tra due artisti che, come nel loro primo pasto insieme, si prendono poco sul serio, ma con grande rispetto reciproco.
Jazz Monroe, Pitchfork

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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati