Prima che “scrittore che vive a Brooklyn” diventasse un logoro stereotipo c’era Jonathan Lethem, che a Brooklyn ci è nato e cresciuto e dà alle sue descrizioni di quel luogo ormai gentrificato una squallida verosimiglianza. Lethem sa nel profondo che un coffee shop non è uno Starbucks ma una tavola calda. In Brooklyn crime novel ci troviamo per lo più nei cosiddetti anni bui, i settanta e gli ottanta, con salti indietro nella storia e in avanti fino alla soglia della pandemia. I personaggi non hanno nomi propri, ma sono indicati con descrizioni: il “figlio di un milionario”, un “ragazzo viziato”, un “fratello minore” (tutti bianchi); un ragazzo nero a cui è concessa la benedizione di un’iniziale, C. I personaggi secondari, quelli “veri” nel senso di spalle comiche, ricevono soprannomi stravaganti: il Pantofola, un ragazzo nero benestante e tranquillo che esce in pigiama; Rantolo, un ubriacone calvo, abitante storico del quartiere che si lamenta dei fighetti e degli smartphone; l’Urlatrice, una ragazza “pazza” le cui urla vengono raccolte in un ipotetico album di successi, in stile Nick Hornby. Le ragazze, però, salvo poche eccezioni, sono marginali in questa storia che procede a zigzag e che descrive come i maschi imparino a muoversi tra varie forme di intimità e violenza. Brooklyn crime novel è un libro ridotto all’osso, spogliato fino a mostrare la sua struttura portante ed è un esperimento letterario interessante e davvero toccante.
Alexandra Jacobs, The New York Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati